venerdì 18 novembre 2022

Running stones e "gare qualificanti UTMB®", c'è un po' di confusione. Provo a spiegare

Negli ultimi due mesi, parlando con persone che alleno o amici che mi hanno espresso il desiderio di provare l’iscrizione a una delle gare dell’UTMB® 2023, o di fare una gara “qualificante” l’anno prossimo per tentare il sorteggio per il 2024, mi sono accorto che c’è ancora parecchia confusione. Niente di male, io per capirci qualcosa ci ho messo settimane, leggendo e rileggendo i regolamenti e provando a pensare ai diversi possibili scenari, e non sono per niente sicuro di aver capito tutto, ci sono delle cose che ancora mi mancano. Inoltre le diciture “UTMB® qualifier”, o “UTMB® qualifying race”, o “gara qualificante UTMB® World Series Events”, o tutti i derivati sui siti di alcune gare possono facilmente suggerire mal interpretazioni. Anche andando sul regolamento delle gare sullo stesso sito dell’UTMB® si può essere tratti in inganno, visto che riportano ancora le modalità di iscrizione per il 2022.

(Questa scritta sui siti di alcune gare trae molti in inganno, queste gare non danno Running Stones)


(Il regolamento della CCC® è ancora quello del 2022)

Quindi, risposta breve: per tentare il sorteggio a OCC, CCC® o UTMB® 2023 bisogna avere almeno una running stone, ovvero bisogna aver corso e terminato una delle gare dell’UTMB® World Series. Su questo punto non ci sono altre alternative, nemmeno per gli elite.

Ma spiegando nel dettaglio, ecco la risposta lunga. In queste gare delle World Series (qui la lista) primi 3 uomini e le prime 3 donne hanno la qualificazione diretta (relativa alla distanza fatta, ad esempio chi ha vinto la Transvulcania è iscritto di diritto alla CCC®, per correre l’UTMB® o si qualifica con un’altra gara World Series delle distanze sulla 100M – cioè 100 miglia, quindi gare che vanno dai 120 km in poi, ad esempio la LUT – oppure può chiedere una deroga all’organizzazione, che sceglie però a propria discrezione). Nelle UTMB®World Series Major (Val d’Aran by UTMB® per l’Europa, Doi Inthanon Thailand by UTMB® per l’Asia, più una gara americana ancora da definire) la qualifica diretta avviene per i primi 10, oltre ai primi 3 di ogni categoria “master”.

(Running stones da guadagnare nelle divese distanze delle UTMB®World Series)

La TDS® non fa parte dell’UTMB® World Series, quindi l’iscrizione è più “classica”, e gli atleti sopra un certo indice di performance (l’UTMB Index, ovvero il vecchio punteggio ITRA – cioè, in realtà è ancora anche punteggio ITRA, ma non pensiamoci) possono iscriversi direttamente, o gratuitamente, o pagando, a seconda del punteggio e della provenienza (non entro nei dettagli per non complicare).

Se l’anno prossimo si vuole provare il sorteggio per l’UTMB® 2024, nel 2023 bisogna correre una delle gare delle World Series, non le gare “qualifiers”. Aumentano le possibilità se si fanno più gare e di distanze lunghe delle World Series, accumulando running stones, ma facendo tante qualifiers non aumenta alcuna possibilità, non si accumula niente. Correndo le qualifiers si ha questo UTMB Index, si può aumentare questo punteggio con le prestazioni, non con l’accumulo di gare, e in ogni caso un indice di performance alto può servire a chi ha punteggi alti. Ah, l’Index è valido per gare fatte nei 24 mesi precedenti (immagino rispetto al giorno del sorteggio, o delle finals UTMB®? Vabè, avevo detto di non sapere tutto), quindi non bisogna adagiarsi col tempo.

(Per fare la gara UTMB® bisogna aver corso almeno una gara UTMB® Index 100K o 100M)

A cosa servono quindi le “gare qualifiers”, cioè le "UTMB® Index"? Ovvero gare come Maremontana, Campo dei Fiori, Mottarone, UTLO, eccetera? Sostanzialmente servono per 3 cose.

1- Per avere la possibilità di iscriversi alle gare delle World Series. Non so esattamente se tutte le gare UTMB® World Series lo richiedano, ma ad esempio la LUT chiedeva di avere corso delle gare “qualifier”, ovvero di avere un UTMB Index valido.

2 - Il caso di maggior utilità delle gare qualifiers può essere nell’eventualità si abbia solo una running stone (quindi si abbia corso una gara da 20K delle World Series) e si voglia correre CCC® o UTMB® (per la OCC sarebbe sufficiente la 20K). Per farlo bisogna aver completato una gara qualifier da 100K o da 100M. Se ad esempio si ha finito la UTLO 100 km, si può tentare il sorteggio di CCC® o UTMB® anche avendo corso poi solo una gara breve da 20K delle World Series, quindi con una sola running stone. Nel caso si abbia corso una gara World Series 100K o 100M, per tentare il sorteggio a CCC® o UTMB® non è necessario avere corso una qualifier della relativa distanza, è già sufficiente la World Series fatta (se ho capito bene).

3 - Un alto perfomance index può servire nel caso di rinuncia alla partecipazione ad una delle gare di Chamonix da parte di un qualificato diretto attraverso le World Seires. Per farlo credo bisogni scrivere all’organizzazione entro metà giugno, limite entro il quale un qualificato può rinunciare. Ovvio che i posti liberi non sarebbero tantissimi e a poter essere ripescati potrebbero essere atleti dall’alto punteggio. In ogni caso, questi ripescati (chiamati lucky loosers) dovrebbero avere completato una delle gare World Series. Da qua non si scappa.

(Dal sito UTMB®)

Per riassumere in breve. Se sul sito di una gara vedete scritto gara qualificante per l’UTMB®, non fatevi ingannare, perché molto probabilmente significa che è una “gara qualifier”. Per poter accedere al sorteggio bisogna necessariamente aver corso una gara delle World Series. Tutto il resto poi si capisce col tempo

(Questo articolo ha solo scopo esplicativo, diciamo così, mi astengo quindi da ogni giudizio su questo metodo 😉. Non sono entrato nei dettagli, tipo le iscrizioni di gruppo, eccetera, o rischierei di fare ancora più confusione. Se ho fatto degli errori scrivetemi pure e correggerò.)

mercoledì 26 ottobre 2022

La mia UTLO 2022 - seconda parte (la gara)

La gara

Ho sempre sofferto le partenze con lunghe salite, quindi avevo deciso di fare un riscaldamento di una decina di minuti, niente di esagerato, ma per una partenza alle 5 del mattino, dopo mesi senza pettorale, facendo subito 1100 metri di dislivello positivo verso il Mottarone, sentivo di averne bisogno.
Avendo fatto quella salita per due volte nelle settimane precedenti, e coi riferimenti delle gare del 2021 e del 2019, avevo ben presente il ritmo da tenere. Infatti in cima ero proprio soddisfatto. Tempo più basso rispetto allo scorso anno di 3’ circa, ma arrivando molto più fresco, in terza posizione, a poco meno di 2’ da Sprenger e Salvetti che erano da subito andati in testa. Jonas Russi, il favorito (8° all’UTMB e vincitore del Tor de Geants nell’arco di meno di 3 settimane) circa 2’ dietro.
La leggera e facile discesa verso Armeno non è però tra i miei terreni preferiti (nonostante un paio di brevi risalite), e sono stato così passato da Tucci, Marchi e Russi, il quale ha iniziato così la sua rimonta. Avevo solo un minuto o due di ritardo da loro, ma quasi 6 da Salvetti, che aveva allungato in testa. Nel tratto fino a Orta ho perso ancora un paio di minuti a causa di una sosta in bagno. Da lì ho provato a spingere un po’ per non perdere ancora e lentamente ho iniziato ad avvicinarmi. Dopo Carcegna, ristoro del 37° km, c’era il tratto a me più congeniale su salite corribili, dove ho raggiunto e superato Tucci e Marchi. Anche la discesa più tecnica verso Omegna (dove finiva la prima parte di gara) era da me preferita rispetto alle altre più semplici, così ero tornato a 5’-6’ da Sprenger e Russi e rimasto a 10’ circa da Salvetti.

(Foto Canofotosports)

A questo punto speravo di poter recuperare ancora. Mi sentivo proprio bene, senza problemi muscolari, né energetici. Così ho deciso di salire verso il Mazzuccone provando a tirare un po’. Verso metà ho dovuto però rallentare, per non rischiare di esplodere. Arrivato in cresta sentivo leggeri crampi e gambe che non riuscivano a rilanciare come volevo quando il terreno spianava. Sono quindi stato costretto ad andare per diversi chilometri “in difesa”, senza poter spingere come volevo.
Il distacco dai primi (nel frattempo Salvetti era stato raggiunto e passato dai due svizzeri) lentamente ha iniziato ad aumentare. Dopo l’Alpe Sacchi, nel lungo tratto verso Boleto, c’erano ancora discese facili e corribili, dove io perdo in modo naturale molto più di quanto potrei su una salita molto pendente. Non ero in pessime condizioni finché non sono caduto, picchiando il braccio sinistro a terra, ma soprattutto infilandomi un riccio di castagne nella mano, con centinaia di spine conficcate (e che sto togliendo ancora…).
Arrivato a Boleto (81 km) ero stanchino e malconcio. Però a livello energetico stavo bene. Avendo corso per ore a quei ritmi, dopo non esserci riuscito da diversi mesi, era normale per me calare un po’. A quel punto avevo iniziato ad avere anche un gran mal di piedi, sempre per la mancanza di gare così lunghe per molto tempo. La pubalgia era leggera e sopportabile, niente di troppo limitante. In questi ultimi 20 km però ho continuato a perdere dai primi, per la difficoltà a correre in modo efficace in piano, a scendere brillantemente e ad essere leggero in salita, camminando su tratti dove avrei pensato di riuscire a correre facilmente.

(Foto Canofotosports)

All’arrivo ho chiuso in 11h54’, circa mezzora in meno dello scorso anno, dove ero andato più in controllo nella prima parte e spingendo maggiormente nella seconda parte, con una forma credo peggiore di quest’anno, ma col distacco dal vincitore Russi salito a 48’, e a 39’ da Salvetti, terzo.
Quest’anno c’era qualche piccola variazione che faceva aumentare leggermente il dislivello (soprattutto intorno agli ultimi due ristori), ma vabbè, cosa da pochissimi minuti. Nell’ultimo terzo di gara, pur rallentando, non sono andato malissimo (sono gli altri che non hanno mai calato), ma potevo sicuramente andare meglio, guardando i dati su Strava e confrontando quelli della gara con quelli del 2021 e della prova percorso su questo tratto.

Dopo la gara

Non mi sono mai commosso al traguardo di una gara. Solo all’UTMB del 2018, ma era comunque una commozione di gioia, leggera, senza vere lacrime. In questo arrivo di Omegna invece la voce era davvero rotta e gli occhi lucidi. Più che vera gioia era… non so cos’era, uno sfogo forse. Avevo troppe cose in testa. Avevo raggiunto qualcosa, e mancava qualcos'altro. Fino a tre mesi prima pensavo di non correre nemmeno più ultratrail, con pensieri che è meglio non dire, mentre ora mi trovavo a terminare una gara così dura dopo aver dato tutto per un’intera mezza giornata ed essere stato (relativamente) bene.
Non sono più un giovanotto, i margini di miglioramento sono minimi, al limite potrei tornare alla forma di 3-4 anni fa, ci sono sempre più atleti più forti, giovani e freschi di me, ma il percorso compiuto per prepararmi a questa gara e quello fatto poi col pettorale indossato mi hanno ridato una buona dose fiducia per sgomitare ancora un poco, consapevole dei miei limiti e di quello che potrò ancora raggiungere.

(Foto Yulia Baykova)


martedì 25 ottobre 2022

La mia UTLO 2022 - prima parte (la preparazione)

(Foto Canofotosports)
Prima (ma non dovevo non correre più ultra?)

Dopo il ritiro alla LUT di quest’anno avevo detto che non avrei più corso gare di quel genere. Non lo dicevo sull’onda della negatività, ma con consapevolezza, per via degli acciacchi continui, del bisogno di una nuova fase della mia vita (e soprattutto della sua incertezza), conscio che a livello sportivo non avessi più molto da chiedere e che serviva svoltare in qualche modo, concentrandomi più sull’allenare che sull’allenarmi.

Poi è arrivato luglio, il Tour du Mont Blanc in bici andato bene, ma il covid nei giorni successivi che mi aveva abbattuto fisicamente e mentalmente. Non andava bene, avevo bisogno di riprendermi, di riprendere forma fisica, calma psicologica, trovando la motivazione per qualcosa di nuovo, non per forza una gara e un risultato competitivo, ma qualcosa che mi avrebbe spinto a divertirmi con un’attività fisica che fosse più dell’uscita di mezzoretta fuori da casa o del giro in bici col gruppetto di pensionati (per quanto piacevoli).

Così dal 1° agosto ho ripreso ad allenarmi con un certo metodo, anche se non sapevo per cosa. Pensavo magari qualche corsa in autunno, oppure chissà. L’importante era vedere che fisicamente fossi ancora in grado di allenarmi decentemente, e la concentrazione da dedicare ad esso sarebbe stata una buona scusa per distrarmi dalle cose che mi preoccupavano.
L’idea era questa: faccio il mese di agosto allenandomi come se fosse la base per qualcosa in autunno, poi vediamo come sto, se me le sentirò di fare una gara e di che distanza, se molto breve, se di distanza “normale” o se qualcosa di lungo.

Il caldo era leggermente più sopportabile rispetto a luglio, così si poteva correre decentemente e anche il recupero e il sonno erano migliori. Da subito fisicamente avevo reagito bene, ma non volevo rischiare nuovi infortuni, quindi inserivo ancora una buona dose di bici evitando lunghi e dislivelli sui sentieri.
Dopo alcune settimane ho pensato che magari la 100 km dell’UTLO non sarebbe stata impossibile. In fondo sono 7 o 8 anni che tento di iscrivermi alla Western States, non volevo lasciare cadere così tutto quanto, e la UTLO sarebbe stata gara qualificante. Di certo non era l’unico motivo, ma ha giocato una buona fetta sulla decisione di pensare a quella distanza, nonostante quello che avessi detto un paio di mesi prima. Anche se questi 100 km, con partenza alle 5 del mattino, sono una distanza per me più facilmente gestibile rispetto a gare notturne, come appunto la LUT, dove ho spesso problemi (ne avevo scritto qui, un articolo dove osservavo la mia scarsa propensione alle ultra con partenza la sera).

La preparazione

La base di forma da cui partivo non era il massimo, ma non ero nemmeno messo così male. Al Tour du Mont Blanc in bici ero comunque andato benino. Il problema principale alla LUT era stata la pubalgia, che ad un certo punto era diventata insopportabile. Nelle settimane successive, con pochissime corse e molto brevi, tutto si era sfiammato velocemente, ma il pericolo di un ritorno dei dolori ci sarebbe stato con chilometraggi maggiori.
I giorni di covid mi avevano parecchio buttato giù, fisicamente e mentalmente (ancora più giù rispetto a prima), due settimane con tosse, gran spossatezza generale e morale ai minimi storici. Quando ho ripreso ad allenarmi pesavo 3-4 kg oltre il mio peso migliore, sui 67 kg. Considerando che in quelle due settimane forse avevo anche perso un poco di massa muscolare, visto il poco o nulla che avevo fatto, non ero proprio al mio meglio.

Per il primo mese ho quindi evitato allenamenti troppo intensi, ma ho provato a fare più ritmi medi, che spesso avevo trascurato in passato e fatto un po’ col contagocce, sia in pianura che su dislivelli, anche se leggeri. Poi sprint in salita ed esercizi di forza alle gambe e al tronco. Avrei forse dovuto fare un po’ più di volume a ritmi lenti, ma non essendo proprio al meglio, ho cercato di aumentare in modo molto graduale, mantenendo una buona dose di bici per poi lentamente diminuire e lasciare più spazio alla corsa, stando attento a come rispondeva il corpo.

(Primo mese di "base", poi aumento dei km, con leggera diminuzione in vista del vertical a due settimane dalla gara, ma con più intensità)

Anche per questo sono ritornato ad usare la misurazione dell’HRV il mattino, cosa che avevo smesso da qualche mese, prima per la difficoltà logistica nel farlo, poi per problemi con l’app, infine perché ad un certo punto era già un’impresa riuscire ad allenarmi e la misurazione della mia forma attraverso un’app era l’ultima cosa a cui pensavo.
Ho anche aggiunto e modificato gli esercizi per prevenire la pubalgia, e per tutto agosto, senza allenamenti troppo lunghi, tutto era andato bene sotto quel punto di vista.
Con l’arrivo di settembre sono tornato a fare sedute intense, riuscendo dopo anni ad inserire allenamenti misti di variazioni in salita e in pianura, cosa capace di fare una bella differenza nel mio stato di forma. Sono tornato molto più sui sentieri, lavorando sulla camminata in salita e sulla discesa come non facevo da tempo. I km settimanali continuavano ad aumentare, mentre calavano quelli in bici, a cui ho via via dedicato sempre meno tempo e praticamente solo in forma di recupero attivo molto blando.

(In bici qualche ora nelle prime settimane per fare volume, poi graduale riduzione fino a fare solo giri blandi di recupero 30'-60')

In realtà il volume durante la settimana non era altissimo, visto che concentravo le sedute più sull’intensità, ma stavo via via aumentando i lunghi nel weekend, con diversi sopralluoghi sul percorso della UTLO. Avendo i riferimenti degli anni scorsi (in particolare nel 2021, visto che nel 2019 avevo corso la 140 km, con tratti diversi, in notturna e con un tempo da lupi), cercavo di provare i ritmi gara, e non coi lenti-molto-lenti che negli ultimi anni mi ero abituato a fare.
Il 1° ottobre ho inserito il Vertikal Sass de Ferr, utile per capire se la forma generale fosse buona, se il programma stesse funzionando e soprattutto se mi sarei ancora divertito come un tempo a faticare col pettorale. Missione compiuta (qua ne avevo parlato qui).

L’unico cambiamento rispetto al programma ideale che avevo in mente è avvenuto proprio per via del vertical inserito due settimane prima della UTLO. L’ideale sarebbe stato fare un ultimo bel lungo proprio quel weekend, che ho invece così dovuto anticipare alla settimana precedente. Il giorno dopo il vertical avrei voluto fare un mezzo lungo pianeggiante (visto che la UTLO è non poco corribile), ma alla fine non ero riuscito per il poco tempo a disposizione.
L’ultimo allenamento lunghetto è stato fatto 8 giorni prima della gara, sui 27 km iniziali del percorso, a ritmo buono. Forse anche questo avrei potuto farlo uno o due giorni dopo, e forse un po’ più lungo, ma la sostanza non sarebbe cambiata molto. Avevo sempre un po’ timore di esagerare, volevo tenere un certo margine.

A pochi giorni dalla gara la forma era sicuramente buona. Peso tornato sui 63.5 km circa e gambe in buono stato. A questo punto avevo paura di fare troppo, ma anche di fare troppo poco, il solito dilemma di chi corre ultra, o di chi corre in generale. Dal ritiro dello scorso anno all’UTMB ho avuto troppo spesso sorprese nei giorni precedenti le gare che avevo preparato, o durante la gara stessa. Essere tornato anche a meditare dopo diversi anni mi ha aiutato non poco a rallentare i cattivi pensieri e a concentrarmi solo sul percorso del momento, lasciando scorrere meglio i giorni di tensione prima della gara.
Alla partenza ero ben preparato e riposato, consapevole di non essere ancora al 100%, ma sicuramente in una forma che non avevo da tempo.

(...to be continued...)

giovedì 13 ottobre 2022

Essere più in forma e andare più lenti (partendo troppo forte). Il mio Vertikal Sass de Fer

Sabato 1 ottobre ho corso al Vertikal Sass del Fer, a Laveno Mombello, gara organizzata da 100%AnimaTrail. Gara corta ma dura e sicuramente fuori dal mio genere, 3.5 km di salita con 900 m+, quasi tutta lungo il sentiero sotto la funivia che dal Lago Maggiore porta alla vista panoramica appunto del Sass del Fer (poco meno di 3 km per la traccia su Strava).

È stata la mia prima gara dal ritiro della LUT di fine giugno (oltre alla StraMazzate di inizio luglio, meno di un km per 4’ di corsa, e il Tour du Mont Blanc in bici di metà luglio), dopo un periodo parecchio difficile e una graduale ripresa ad allenamenti strutturati. È stato anche il primo vertical dopo quasi un anno esatto dall’ultima volta, sempre qua. Avendo così a disposizione un confronto con i tempi e coi dati di Strava, ho potuto notare cose interessanti (oltre al fatto che la mia velocità su queste gare non si schioda neanche a cannonate). In realtà è la terza volta che faccio questa gara, anche se nel 2018 non caricavo gli allenamenti su Strava e la partenza era leggermente spostata, quindi forse più veloce di qualche decina di secondi.

Dunque, quest’anno ho impiegato 39’52”, mentre lo scorso anno 39’34”. Nel 2018 39’24”, in primavera, la settimana dopo la vittoria alla Maratona Alpina di Val della Torre. Sempre considerando che le prestazioni possono anche dipendere dal clima, dal terreno (quest’anno aveva piovuto la notte precedente, ma non si può certo dire che ci fosse terreno pesante, anzi, mi è parso ininfluente), la prima curiosità è che le sensazioni in gara sono state contrarie rispetto al tempo fatto. Nel 2018 ero probabilmente nel mio anno di forma migliore in assoluto, ma non avevo fatto una gran gara, partito troppo spavaldo, ero calato nella seconda parte, senza nemmeno spingere a tutta fino alla fine. Non ero abituato a usare i bastoni e avevo avuto l’impressione che mi fossero stati più d’impaccio che di aiuto.
 
(foto Francesco Berlucchi)

La partenza era forse qualche centinaio di metri più breve, ma a memoria forse mancava anche un drittone sul prato nell’ultima parte di corsa, che avrebbe compensato quella discrepanza (ma non ricordo bene, potrei sbagliarmi). In ogni caso, avevo la sensazione di aver fatto schifo.
Lo scorso anno non ero di certo nella mia forma migliore, venivo da un paio di gare che sfortunate è dir poco (e dal ritiro all’UTMB del mese prima), scarsa voglia di allenarmi, un paio di chili in più, ma partito più cauto mi ero trovato a non stare così male, spingendo nella seconda parte e finendo discretamente soddisfatto, visto il periodo.

Quest’anno la forma era sicuramente migliore dopo questi due mesi di allenamenti fatti bene. Peso tornato praticamente al mio standard e voglia di faticare e spingere. Proprio per questo motivo mi sono trovato però a partire troppo allegramente. Viste le buone gambe che sentivo, ho spinto abbastanza sin dalla partenza, cercando di non rimanere bloccato prima dell’imbocco del sentiero e della stretta parte con le scalinate della prima parte di gara. Mi sentivo bene, ma forse ho spinto decisamente troppo.

Osservando i dati di Strava, ho visto che nei primi 500 metri (quelli più facili) quest’anno ho impiegato 20” in meno dello scorso anno, e nel primo km (con salita già iniziata) addirittura un minuto meno, 7’04” contro 8’09”, che anche considerando eventuali piccoli errori da parte del GPS sarebbe comunque tantissimo. Mi trovavo infatti credo al 7° posto, attaccato al 6° e con un gruppetto dietro che mi pareva ben più lento. Dopo il primo terzo di salita, con le pendenze più dure dei vari scalini, ho passato chi mi era davanti, ma sono stato sorpassato a mia volta. Ho sentito presto che le gambe non mi permettevano di cambiare ritmo, così, credo poco dopo metà gara, il gruppetto dietro si è lentamente avvicinato per poi passarmi. Purtroppo, non essendoci tratti dove respirare, provare a rallentare leggermente e gestire il passo non ha aiutato in ogni caso. Pur non perdendo troppo, ho continuato a mantenere un’andatura insufficiente per ritornare sotto. Arrivato nel brevissimo tratto di respiro prima dell’ultimo sentiero, il più facile, non avevo ancora sufficiente tempo per riprendere velocità, così ho potuto solo mantenere la mia posizione, senza riuscire a recuperare qualche posizione.
Osservando sempre su Strava le differenze tra lo scorso anno e quest’anno, ho potuto notare come nei due segmenti della parte più dura, il sentiero sotto la funivia, ho perso 15” nella prima parte (su poco meno di 15’) e 39” nella seconda (su circa 12’). Nell’ultimissimo tratto non so, ma più o meno ho fatto un tempo simile.

(foto Mario Dambrosio)

Riassumendo, forma migliore, migliori sensazioni, ma tempo peggiore. Ma in una prova così conta non solo la forma, serve anche dosare bene le energie, nello stesso modo in cui serve per gare ultra. Se in una gara di 10 km dovessi partire 20” o 30” al km più veloce delle mie possibilità, nel finale perderò molto di più di quel tempo, perderei forse anche un paio di minuti. In un vertical succede la stessa cosa. Avendone corsi pochissimi e non essendo la specialità in cui riesco a rendere al meglio, ho sempre patito la gestione dello sforzo. Solo lo scorso anno nel VK1 da Courmayeur al Pavillon del venerdì sera ero andato bene, ma in quel caso i primi chilometri su pendenza tranquille mi avevano fatto partire con calma (oltre al fatto che la mancanza di quel tipo di sforzi dopo 2 anni senza salite di quel genere mi avevano suggerito una partenza cauta), carburando il mio motore diesel e affrontando la parte centrale in buona spinta.

Bisogna avere una forma buona e gestire bene le forze, e non farsi troppi problemi se il risultato è minore di altre volte in cui si era in una forma peggiore. Anche se alla fine quello è il mio livello, non c’è molto altro da fare. Come avevo detto nell’ultimo articolo? L’importante non è il risultato, ma il percorso fatto per arrivare fin lì. Quindi va bene così.

martedì 20 settembre 2022

Il processo e il risultato

All’UTMB 2021 mi ero ritirato a Courmayeur, dopo una contrattura alla coscia posteriore praticamente inspiegabile arrivata dopo pochissimi minuti dalla partenza, problemi digestivi, sensazioni pessime in salita con tanto di capogiri… Insomma, un disastro. Eppure, mi sentivo in forma, ero in forma. Forse non nella miglior forma della mia vita, ma quasi. Il ritiro era stata di certo una cosa non buona per il morale, dopo il 2020 praticamente buttato, dopo quasi 2 anni lontano dall’Italia e dai sentieri alpini, ma nonostante la delusione per l’occasione sprecata, per l’impegno che avevo messo nella preparazione, per l’investimento generale che avevo fatto, non ero così completamente affranto (quella sensazione sarebbe arrivata nelle settimane successive, dopo varie vicissitudini, una forma che stava tendendo a calare e altri problemi che si sono riflessi fino a quest’anno…). Ero stato contento dell’allenamento che avevo fatto, della ripresa delle gare dopo i periodi più bui della pandemia, delle sensazioni che avevo avuto nelle settimane e nei giorni prima della gara, delle ore passate finalmente sui sentieri, delle pedalate sulla bici da strada dopo tanto tempo, degli acciacchi che sembravano un lontano ricordo. Mi ero davvero goduto il processo di avvicinamento alla partenza della gara. Pensavo solo secondariamente alla gara e ad un possibile risultato, che sarebbe arrivato “semplicemente” correndo come avrei potuto fare e nel modo che era nelle mie corde.


Poi certo, una volta ritirato, si sarebbe potuto dire qualsiasi cosa riguardo i motivi del disastro: mi ero allenato troppo o troppo poco, troppo intensamente o troppo lentamente, i giorni prima ho fatto troppo o troppo poco, ho mangiato troppo o troppo poco, ero troppo tranquillo o ero troppo stressato. Tutto e il 
contrario di tutto. A posteriori qualcosa di diverso l’avrei sicuramente fatto, ma è troppo facile dirlo ora. Però mi ero goduto quel processo di avvicinamento e per quel periodo mi aveva fatto stare meglio, mi aveva fatto stare bene, allontanando – almeno momentaneamente – i brutti pensieri e la negatività generale arrivati insieme alla pandemia.

Il ritiro da una gara, una giornata storta, un imprevisto che precluda il risultato sperato (non bisognerebbe sperarlo il risultato, ma è automatico pensarlo e cosa difficile da non fare), una tattica sbagliata, non devono (non dovrebbero) far pensare di aver buttato il periodo di preparazione, sono cose che possono succedere, ma di certo un buon allenamento fatto in modo consapevole, godendoselo e divertendosi (anche qua con giornate a volte buone, altre volte negative) può ridurre il rischio che queste cose accadano.

Ora mi ritrovo in una situazione molto diversa, ma anche molto simile. Non mi sto allenando per un UTMB, ma sto cercando di immergermi in un processo di ripresa di forma fisica e di benessere psicologico, di fiducia in me stesso, non tanto (o non solo) per allontanarmi dai brutti momenti degli ultimi mesi e delle vicende personali che mi hanno messo a dura prova (ma quale prova, poi?), ma per cercare di fare in modo di reggere, di navigare sopra l’onda che mi è arrivata addosso, senza tentare di frenarla, che sarebbe impresa inutile, fin troppo faticosa e che mi farebbe concentrare solo sul raggiungimento di un risultato finale, e non sul processo. L’obiettivo non è il risultato, l’obiettivo è il percorso stesso. Sembrerà una frase fatta, una banale frase motivazionale, o che richiama qualche altro famoso aforisma, ma delle volte - o forse sempre - è davvero così.

Ora mi sto di nuovo allenando bene, provando cose nuove, concentrato sul momento, sul processo di allenamento, e non sul potenziale risultato. Se questo processo continua così bene, col puro piacere della preparazione, senza che diventi fonte di stress, senza pensare al risultato che potrei raggiungere quando tornerò ad indossare un pettorale, questo stesso risultato potrà arrivare in automatico. E se non arriverà? Mi sarò goduto questi mesi e cercherò di fare altrettanto nel futuro.

lunedì 12 settembre 2022

Il mio Tour du Mont Blanc di quest'anno, in bici

Quest’anno non ho corso l’UTMB, ma il giro del massiccio del Monte Bianco l’ho fatto comunque, anche se in bici. Dopo il ritiro dalla LUT e in un periodo difficile sotto tanti punti di vista, avevo pensato che una bella pedalata avrebbe potuto aiutarmi. In fondo gli acciacchi erano legati al movimento della corsa (la pubalgia), la forma non era al top ma non era nemmeno così orribile. Avevo già pedalato non poco tra maggio e giugno ed era un modo per cercare di uscire dalle altre difficoltà non legate allo sport. Così, dopo aver partecipato nel 2019 al Tour du Mont Blanc in bici, ho pensato potesse essere una buona occasione anche quest’anno, il 16 luglio.
Tre anni fa mi stavo preparando per il Tor des Geants, e dopo l’esperienza del 2018 in vista dell’UTMB, avevo in mente di fare tanto volume in bici a luglio, anche perché è uno sforzo che al caldo è molto più gestibile rispetto a correre a basse quote.


Il percorso, con partenza e arrivo a Les Saisies, in Francia, è lungo “circa” 330 km, con 8000 metri di dislivello. Dico circa perché tra GPS e dichiarazione dell’organizzazione c’è sempre qualche piccola discrepanza. Passare per Saint Gervais les Baines, Les Houches, Chamonix, Vallorcine, Trient, Col de la Forclaz mi fa ovviamente sempre ricordare l’UTMB. C’erano due piccole differenze tra quest’anno e tre anni fa, anche se forse ho finito per fare stessi chilometri e dislivello, e finendo praticamente con lo stesso tempo, 14h39’ quest’anno e 14h30’ la prima volta.
Nel 2019 non si saliva a Champex-Lac, ma da Martigny si andava direttamente verso il Gran San Bernardo, inoltre da La Salle, in Valle d’Aosta, si faceva il Colle San Carlo, una mazzata, tra le salite più dure delle Alpi e che al Giro ha fatto sempre gran danni. In realtà quell’anno si faceva anche un’altra salita, senza scendere ad Aosta, ma per un mio errore e senza aver visto una deviazione durante la discesa dal Gran San Bernardo, ero sceso fino a valle, risalendo poi tutta la strada statale verso Courmayeur da solo. Anche risalendo non so se avrei capito dove svoltare, poi non si trattava di una gara vera e propria, senza classifica (anche per questo la strada non era chiusa al traffico e le segnalazioni erano minime), pur con partenza in gruppo e con una leggera competizione (almeno per le prime posizioni), quindi non me ne veniva niente ad aver tagliato involontariamente una salita.


Quest’anno ho avuto la sensazione di essere andato molto meglio. Intanto ero appunto forse meglio allenato per la bici, avendo già inserito allenamento lunghi da maggio. La forma non era pessima come sembrava, nonostante acciacchi, nervosismo e forse pure un paio di chili in più. E poi ho trovato una giornata in cui testa e fisico sono andati d’accordo sin da subito, anzi, dal giorno prima.
Ero tranquillo, naturalmente non avevo alcuna pressione, speravo solo di non forare, poi in qualche modo la bici l’avrei portata in giro per i vari passi alpini. Una cosa che ho capito (ma in realtà è abbastanza scontata) è che tra le granfondo in bici e gli ultratrail le probabilità di ritirarsi sono molto diverse, in bici è molto più facile mangiare e digerire, infiammazioni o problemi fisici vari sono di meno e di minor gravità, quindi mi era sufficiente continuare ad alimentarmi bene, bere (visto il gran caldo che sarebbe arrivato durante la giornata) e godermi la pedalata. Proprio per la tranquillità che avevo, ero curioso di partire leggermente davanti e provare ad attaccarmi a gruppetti buoni, risparmiando così forse anche qualche energia nei tratti più semplici del percorso.
La partenza in discesa (a velocità controllata, ma pur sempre in gruppo e quindi dove non era facile tenere buone posizioni senza rischi inutili) e i primi chilometri facili mi hanno fatto spendere un po’ per non perdere le ruote, ma ero riuscito a rimanere nella prima parte del gruppo (partenti circa in 400, a memoria). Con le prime salite ho preso il mio ritmo regolare, pur spingendo non poco. Il mio Garmin Epix 2 mi dava una frequenza cardiaca un po’ alta, ma era giusta, ero relativamente fresco e stavo tirando, pur senza fuorigiri. La tattica di cercare di stare davanti mi ha aiutato davvero, sono rimasto sempre con buoni gruppetti nei tratti in pianura o in falsopiano, recuperando a volte qualche posizione in salita o nei ristori dove io mi fermavo un po’ meno di altri. A fine gara ho notato come la frequenza cardiaca sia stata mediamente molto alta, calando leggermente ad ogni salita, per via della stanchezza e sicuramente anche per una partenza più allegra rispetto a quello che potevo permettermi, ma ulteriore segno che la forma non era proprio da buttare.

638 km ??

L’assistenza teoricamente non era permessa, ma ho visto decine di persone e auto fare da ammiraglia, soprattutto sulle salite più lunghe, dove mi capitava di incontrare le stesse persone più o meno ogni mezzo chilometro: davano la borraccia al ciclista, risaliva in auto, avanzano di un paio di tornanti, e così via. Ai fini della classifica non me ne fregava niente, avrei potuto finire qualche decina di posizione in meno se tutti avessero fatto quello che andava fatto, perdendo come me una mezzora totale tra tutti i ristori fatti da me in modo indipendente, il tifo che facevano poteva anche essere positivo, ma trovarmi auto che continuavano a sorpassarmi e che magari poi trovavo in discesa non era piacevole, soprattutto visto che in oltre 300 km di auto ce ne sono state già più che abbastanza. L’unica assistenza che potevo avere era attraverso due sacche lasciate all’organizzazione e che avrei trovato in due punti, dove in pratica avevo solo messo gel, sali e cibo. Mi faceva perdere qualche minuto, ma almeno non davo fastidio a nessuno.


Non so di preciso la classifica, ma credo di aver piano piano rimontato più o meno fino al 30° posto, almeno fino ai 200 km, poi però caldo e fatica si sono fatti sentire, con mancanti forse un gel o due verso il Piccolo San Bernardo. Dopo 280 km, salendo al Cormet du Roseland, sono andato proprio in crisi. Caldo, leggero vento contro, stanchezza generale (oltre a dolori da bici: soprassella, mani e polsi, schiena contratta…). Ma ero in una giornata buona, e a differenza dei trail con partenza al tardo pomeriggio o in notturna, in eventi che si affrontano lungo la giornata e senza deprivazione di sonno riesco a superare meglio certe difficoltà. Così mi sono messo lì, pazientemente, a raggiungere la cima, cercando di gestire l’alimentazione che ad un certo punto si era lo stesso fatta difficile, dopo litri e litri e migliaia di calorie.


L’ultima salita permetteva di recuperare ogni tanto, così che negli ultimi chilometri, pur cotto, pur stanco, ho provato a spingere, finendo credo poco oltre il 40° posto e arrivato cotto, ma soddisfatto. I primi hanno finito in 11h30’-12h (gente che vince le granfondo, altro motore), poi pochi altri intorno alle 13 ore, e poi più o meno quelli con cui ho spesso condiviso tratti di percorso, sulle 14 ore, alte o basse a seconda di un calo finale o meno (bè, io ero nel mezzo).

Nonostante il periodo grigio era stata una giornata dove i pensieri erano solo concentrati sul mio gesto, sulla gestione dello sforzo, sul piacere della fatica. Certe volte le giornate di “flow” possono arrivare anche durante un periodo difficile e complicato, in modo indipendente dalla forma psicofisica e inaspettato, mentre altre volte non arrivano quando tutto sembra perfetto, il tutto probabilmente a causa delle aspettative.


Purtroppo dopo quel giorno ho passato ancora qualche settimana non buona, ma diciamo che mi ha fatto capire che non ero messo così male a livello atletico e che qualcosa di interessante potrei ancora farlo...



venerdì 15 luglio 2022

La transizione estiva (e gare corte)

Quando si parla di allenamento, tutti ormai conoscono le diverse fasi lungo la stagione: transizione, base, costruzione, specifico, pre competitivo, competitivo. Poi ci si trova a scontrarsi con la realtà un po’ più complicata, dove si vorrebbe essere pronti e allenati a gennaio, e poi a marzo, a maggio, fine luglio, fine agosto, ottobre, con una puntatina a novembre. Ci siamo cascati più o meno tutti, me compreso. Di sicuro più si è forti, più si possono gestire le energie, vincendo gare anche prendendole come allenamento e andando all’80%. E poi ci sono situazioni sempre diverse, per cui per gare più brevi è possibile essere competitivi per più tempo, o senza la necessità di fare tutto in modo così dettagliato e diviso per periodo. Per chi ha meno qualità e punta ad essere finisher (in buone condizioni), è importante soprattutto essere pronti per la lunghezza e il dislivello dell’obiettivo principale, che poi spesso corrisponde con la gara più lunga.



I casi sono molto diversi uno dall’altro, e dipende sempre dalla storia dell’atleta, dalle qualità, dalle gare che si vogliono fare, dal tempo che si ha per allenarsi, dagli obiettivi, eccetera. Capita però a molti di avere come gara principale qualcosa a fine giugno, ad esempio dalle parti di Cortina… Oppure nella Svizzera ticinese (lo Scenic Trail)… Insomma, in molti si sono trovati a preparare in modo particolare una di queste gare, che fossero di 120 o di 55 km, comunque per molti la distanza più lunga e come obiettivo principale della prima parte dell’anno. Ma cosa fare subito dopo? Continuare ad allenarsi? Riposarsi? Puntare subito a qualcos’altro?

A parte alcuni che possono aver preso una di queste gare come avvicinamento per qualcosa ancora più lungo e impegnativo (tipo a fine agosto, o a inizio settembre, dalle parti del Monte Bianco in Valle d’Aosta…), per molti però le successive settimane sono state proprio di recupero. Gli obiettivi autunnali e il clima del periodo non consigliano di certo di strafare ora, anzi. Insomma, nient’altro che un periodo di transizione tra un mesociclo e un altro, dove fare magari sport alternativi, corse tranquille e possibilmente più corte, magari qualche giro in montagna anche solo sotto forma di trekking. Se capita qualche corsa breve ben venga! Capita infatti che grazie all’enorme base aerobica dei mesi precedenti e della gara lunga appena fatta si arrivi a correre gare brevi (dico intorno ai 5-10 km) inaspettatamente veloci, nonostante giorni con pochi allenamenti e settimane quasi certamente senza intensità. Non so quante volte mi è capitato in passato di andare fortissimo in gare veloci pur senza averle preparate e magari con le gambe ancora non del tutto riprese da un’ultra di due o tre settimane prima, e noto che sta capitando spesso anche con le persone che alleno, inaspettatamente felici per certi tempi e risultati che non si sarebbero mai pensati. Non è un’auto markettata, solo un’aneddotica che quest’anno si sta felicemente ripetendo spesso, nemmeno troppo sorprendentemente per me, non per la mia presunta bravura, ma proprio perché so che può accadere facilmente.

Quindi, se volete migliorare sui 5 o sui 10 km, allenatevi per un’ultra, poi corretela, anche a fatica, e dopo qualche settimana fate la gara corta. Vabè, scherzo. Più o meno… Ma sto divagando, volevo dire della transizione estiva. In effetti perché in estate bisogna per forza fare sempre allenamenti e gare lunghe se si è già fatto tantissimo prima e se fa un caldo fotonico? E poi magari si fanno pure in ferie… Riposarsi e ricaricare le pile in vista dell’autunno può essere decisione saggia e giusta in questo periodo, almeno per chi non ha grandi obiettivi imminenti.

martedì 5 luglio 2022

"Chi vince festeggia, chi perde spiega". La mia LUT: la partenza, la confidenza, i dolori, il ritiro

“Chi vince festeggia, chi perde spiega”. Questa frase di Julio Velasco la trovo sempre molto vera, anche se non vale proprio sempre. E quando si parla di sport individuali, soprattutto se si parla di trail, vincono in tanti. Si può vincere anche terminando con tempi molto più alti delle proprie possibilità e arrivando tantesimi. Ma si può parlare di sconfitta quando ci si ritira. In questo posso ritenermi un esperto.
Quindi le mie saranno giustificazioni al mio ritiro? Si potrebbe anche interpretarle tali, ma no, la spiegazione più semplice è che non ho il fisico. Non sono scuse, se ho dolori e altri problemi, se sono mezzo acciaccato da tempo, non è per chissà quali motivi. Avrei anche potuto fare le cose meglio, in modo diverso, magari mi sarei potuto allenare in maniera migliore, ma di base rimane che più di così, nel weekend della LUT, era difficile fare.
Bè, ci sarebbero anche mille motivi extrasportivi che mi hanno fatto allenare male nelle ultime settimane, che mi hanno fatto recuperare ancora peggio, spesso dormire quasi nulla, ma questo è un altro discorso. Insomma, raccontando la mia gara posso spiegare un po’ meglio cosa non è andato.

(Foto Geraldine Roma)

In partenza mi sentivo abbastanza bene. Negli ultimi giorni mi sembrava di avere recuperato un minimo di freschezza fisica, anche se era logico che non fossi al top. Proprio per questo avevo però meno aspettative. Nei primi 2 km su asfalto ero fiducioso, corsa sciolta e leggera, ma sapevo che era solo l’inizio. Davanti il gruppone dei favoriti era partito per un’altra gara (sicuri che sia stata una buona idea per tutti tentare di rimanere col gruppo e non puntare a tenere il proprio ritmo?), dietro altri atleti sparsi, tra cui me. Durante la prima salita avevo davvero ottime sensazioni, mi sembrava di correre molto bene, facile, con poco impegno. Terminata la salita, durante il piccolo tratto di balconata ho perso qualche posizione, ma niente panico, è sempre stato così per me, puntando a tenere il mio passo e risparmiando energie. Nella prima discesa idem, ma andavo meglio di quanto pensassi. Durante il successivo tratto ancora corribile verso il primo ristoro di Ospitale (18° km) continuavo ad avere ottime sensazioni in salita, meno in piano. Però ero contento del mio passo. Ero anche contento delle tante persone sul percorso che riconoscendomi mi incitavano.
Durante la successiva salita, ancora buone sensazioni, con qualche posizione nuovamente recuperata. Qualche goccia di pioggia in alto verso lo scollinamento (e sui 2000 metri sentivo un poco l’altitudine, ma lo sapevo), senza però dovermi coprire, visto che durante la discesa verso Passo Tre Croci aveva già smesso. Nei saliscendi verso Federavecchia (dove una volta c’era il ristoro con la prima assistenza) ho iniziato però a perdere brillantezza. Gambe via via più pesanti, senza riuscire a rilanciare nei tratti corribili e con il principio di ritorno della pubalgia.
Ecco, la pubalgia. Ne soffrivo nei primi anni di trail, ma sempre gestendola bene, visto che era dovuta più all’eccesso di gare che ad altro, e forse era anche retaggio degli anni di giovanili di calcio (come più o meno tutti i miei acciacchi). Col tempo era passata praticamente del tutto. Solo qualche leggero fastidio dopo lunghissime gare, ma direi normali dolori da ultra, niente di più. Lo scorso novembre, nel finale della JFK 50 mile, mi era però saltata fuori in modo prepotente. Anche in quel caso pensavo fosse solo per la particolarità della gara, tutta corribile negli ultimi 55 km. Nei giorni successivi avevo avuto parecchia infiammazione, ma quando ho ripreso gli allenamenti, non sembrava nulla di grave. Per tutto l’inverno ci ho convissuto. Mi veniva soprattutto dopo gli allenamenti più lunghi nel weekend. Avendo però inserito un giorno di totale riposo nel lunedì, mi passava velocemente. Sì, un po’ di fastidio ogni tanto, ma niente di troppo debilitante. Però più aumentavo il volume e le ore dei lunghi, e più aumentava il dolore, tanto da iniziare a dover dormire con un cuscino tra le ginocchia.
E pure qua apro un’ulteriore parentesi. In inverno ho avuto un episodio di vertigine parossistica posizionale di notte, dovuta dalla mia posizione della testa durante il sonno, che mi causava appunto improvvise e tremende vertigini. Ho dovuto quindi iniziare a dormire con un cuscino supplementare sotto la testa e girandomi di lato, il che mi favoriva l’infiammazione in tutta la zona del bacino. Ecco perché ho dovuto inserire anche un cuscino in mezzo alle ginocchia, altrimenti si infiammava tutta la zona pubica, retto addominale, ileo psoas, adduttori… Poi pum!, a marzo pure la contrattura ai flessori posteriori della coscia.
Correndo di meno a causa di questa contrattura, con esercizi vari e sempre col cuscino tra le ginocchia, la pubalgia sembrava andare meglio, tanto che alla UROC non avevo avuto particolari problemi. Al Monte Soglio, invece, aldilà di gambe dure, poco fiato, poca testa, nel finale avevo nuovamente avuto fastidio, nonostante un percorso non molto corribile e un ritmo non troppo alto. Poi tutto subito passato nell’arco di pochi giorni, e che credevo ormai passato del tutto nel mese tra Soglio e LUT, visto che ho pedalato e corso non lunghissime distanze durante questo periodo. E tenendo sempre un cuscino pronto nel caso sentissi fastidio di notte.



Tornando alla gara, durante il tratto corribile prima del Lago Misurina, il passo era sempre più corto, sempre più pesante. Arrivato al lago non avevo grandi sensazioni. Inoltre avevo il mio solito incredibile problema di visibilità, con gli occhi che soffrono il freddo notturno. Non era un freddo così importante, avevo gli occhiali protettivi, e mi ero messo collirio prima di partire e poi anche proprio al ristoro del lago, ma il fastidio rimaneva. Niente da costringermi a fermarmi, era sopportabile, ma sicuro non aiutava per il morale, visto che in gare notturne mi viene 2 volte su 3, se non di più. Molto frustrante.
Insomma, ripartito dal ristoro, le sensazioni correndo intorno al lago erano sempre peggiori. Mi sono fermato per una sosta fisiologica, e chinandomi ho avuto un crampo tra adduttori e sartorio, cosa abbastanza incredibile, visto che non avevo tirato così tanto, mi stavo alimentando e idratando, e non mi era mai capitato con questi ritmi e in condizioni ambientali tutto sommato nella norma. Salendo poi verso il Rifugio Auronzo, gambe sempre più pesanti e sensazioni sempre peggiori. Girando poi intorno alle Tre Cime di Lavaredo, la pubalgia era sempre peggiore. Durante la discesa il passo era per forza sempre più corto, sempre più pesante. Nell’ultimo tratto della discesa il dolore stava diventando insopportabile. E quando è iniziato il tratto corribile verso Cimabanche (quello che tutti odiano, e che io credevo di poter riuscire a gestire meglio, dopo anni negli USA su percorsi corribili), alzare le gambe era diventata davvero un’agonia. Ogni passo era un lento trascinare dei piedi, rischiando pure di inciamparmi. Al retto femorale vere e proprie fitte, l’ileo psoas completamente contratto, zona lombare dolorante e contratta, persino i bastoni mi erano di poco aiuto. Così stop, ho iniziato a camminare pensando solo ad arrivare al ristoro e fermarmi.

Lo so, lo so, che le vere agonie sono altre, che c’è di peggio, ma sommato al mio stato mentale dell’ultimo periodo, alla forma fisica degli ultimi mesi e a tante altre cose, pensare di reggere quel fastidio per ancora altre 7, 8, 10 ore o forse di più era davvero troppo.
Ora bo, vedremo. Però, come avevo scritto già in un articolo qualche tempo fa, io in questo tipo di gare ho proprio dei problemi fisici e forse anche una scarsa attitudine mentale. Jim Walmsley ha paura di correre al buio e problemi? Eh, ce l’ho pure io paura, e ho anche un sacco di problemi fisici e non solo, come si può notare, che vi credete!? E non ho nemmeno manco alla lontana nei miei sogni il suo motore.
“Chi vince festeggia, chi perde impara”.

giovedì 5 maggio 2022

Come mi sono ripreso velocemente dall'infortunio e ho vinto la UROC

Sabato 9 aprile ho scritto su una story di Instagram che non avrei corso la UROC,  in programma il 30 aprile, a causa di un acciacco che non mi permetteva di farlo. Anzi, non riuscivo nemmeno a camminare senza dolore. Poi mi sono ripreso e ho corso la UROC. E l’ho pure vinta (ma c’era davvero poca concorrenza quest’anno, è stata una delle rarissime volte in cui sono rimasto in testa dall’inizio alla fine, anche se questo non sminuisce l’importanza che ha avuto per me, soprattutto per il morale). Ma non c’era nessuna esagerazione in quell’inizio aprile, ero davvero messo male.

Ecco quindi un riepilogo super ultra didascalico sull’acciacco e su come ho recuperato in pochissimo tempo da un infortunio che sembrava non passare.

Inizio febbraio. Corro sui sentieri un allenamento di recupero in cui mi fermo a fare piccole foto e video. Ad un certo punto ho una fitta improvvisa ai flessori della coscia, zona dove spesso ho avuto contratture e infiammazioni negli ultimi anni (l’ultima volta all’UTMB lo scorso anno subito dopo la partenza). Corricchiando lentamente riesco a tornare a casa. Il giorno dopo niente corsa, solo esercizi. Il giorno successivo mountain bike, e la domenica lungo trail senza più fastidio.
Poi tutto ok per oltre un mese.

17 marzo, ultimo allenamento in pista in vista della Behind the Rocks. Sono un po’ affaticato dalle ultime settimane, sento un leggero fastidio, ma corro bene, mi sento finalmente veloce dopo tanto tempo. Negli ultimissimi 10 metri dell’ultima variazione intensa sento ancora la fitta alla coscia posteriore. Riesco a tornare a casa corricchiando lentamente. Il giorno dopo, scioccamente, provo a correre, e pur se con leggero fastidio, sembra gestibile. Confido che possa passare il pochi giorni. Sabato 19 giro in mountain bike. Domenica 20 niente trail, faccio solo stairmill in palestra e qualche esercizio. Sembra ormai a posto. Lunedì provo una corsetta. Leggero fastidio, ma sembra sempre ok. Dopo 20’ il fastidio aumenta. Dopo 30’ sono completamente bloccato. Provo a tornare a casa ma mi è impossibile correre. A questo punto non riesco nemmeno a camminare senza dolore.

Il giorno dopo, martedì 22, riesco ad andare dal fisioterapista, ma non “quello bravo” che conosco, non ha posto, quindi mi vede uno dei suoi soci. Non che non sia bravo, ma mi massaggia solo la muscolatura, mi fa vedere degli esercizi da fare nei giorni successivi. Mercoledì brevissima pedalata, ancora con dolore. Giovedì viaggio verso Moab, quindi nessuna corsa, solo qualche camminata e pochissimi esercizi molto blandi una volta arrivato in hotel, anche perché ho le gambe gonfie dal viaggio e non è l’ideale. Venerdì, giorno prima della gara, faccio una breve corsetta di 10’ con gli atleti allenati per il progetto “My Road To Ultra”, più qualche foto in action. Va sicuramente meglio rispetto a lunedì, ma sento il fastidio lì lì pronto ad esplodere.

Sabato 26 alle 6 del mattino parte la gara. I primi chilometri sono corribili, sebbene su terreno morbido, ma non è l’ideale, fatico ad estendere la gamba. Infatti dopo pochi minuti arriva la prima fitta. Sono tutto bloccato, la mia corsa è praticamente un galoppo, tutta storta e senza poter spingere come vorrei. La gara è tosta, ma stringendo i denti riesco a finirla dopo 8h45’ al 7° posto.
Finisco zoppicando tremendamente, ma dopo recupero e claudico come può capitare dopo una qualsiasi ultra, niente di che.
Tra domenica e lunedì torno a casa.
Settimana di stop totale dalla corsa, cosa per me normale dopo un ultratrail di una certa distanza. Qualche blanda pedalata sullo spinning, qualche pedalata fuori, qualche camminata più lunga del solito coi cani, qualche esercizio, tanti massaggi alla coscia per sciogliere la contrattura. Mi sembra di aver recuperato a sufficienza.

Martedì 5 aprile provo a correre. Sento di aver qualcosina in profondità nella muscolatura, o forse è altro, non so, ma parto senza alcun fastidio. Corro bene i primi minuti. Dopo 7’ esatti, ecco una nuova contrattura, anche se più leggera. Provo ad andare avanti qualche decina di minuti provando a capirci qualcosa, ma anche se non peggiora come altre volte, di certo nemmeno migliora.
Per un paio di giorni ancora solo bici, esercizi e massaggi, e quando cammino coi cani provo a correre piano qualche metro per capire come va. Sembra gestibile. Venerdì sera (8 aprile) vado in palestra, faccio un circuitino con stairmill, esercizi, saltelli e qualche corsa. Il fastidio rimane, ma sembra ancora una volta gestibile.


Sabato 9 provo a correre. Mi dico che se riesco a correre mezzora intorno a casa, il giorno dopo provo sui sentieri, dove mi è possibile gestire meglio grazie al continuo cambio di passo e a qualche salita dove camminare. Parto, ma dopo 7’ nuova fitta forte come non mi era ancora capitato. Temo che dalla contrattura tutto possa essere peggiorato, magari fino ad uno stiramento.

Per due giorni zoppico a camminare. Riesco a trovare appuntamento dal fisioterapista per mercoledì 13. Ormai non penso più alla UROC, non ho corso bene per settimane, non credo che in un paio di settimane possa passare una cosa che si trascina da un mese e sembra essere peggiorata.

Lunedì 11, provando a massaggiarmi da solo la coscia e a capire meglio l’origine del dolore, mi rendo conto che ora si è spostato rispetto all’inizio. Trovo alcuni punti in profondità nei flessori dove mi sembra di avere come delle aderenze, o qualcosa di simile. Appena premo e massaggio in quei punti, sento immediato sollievo, tanto che anche a provare ad allungare la gamba, come per fare stretching, riesco a fare movimenti che non ero riuscito da settimane. Anche camminando coi cani sento che va incredibilmente meglio, riescoa ad allungare il passo senza più dolore. Intanto pedalo, non faccio grandi volumi, anzi, ma metto un po’ di intensità.

Mercoledì vado dal fisioterapista, quello molto bravo. Gli spiego il tutto, compreso che ora mi sento meglio. Lavora ancora su quei punti, ma soprattutto mi sistema l’articolazione dell’anca. È un problema che ho da quando giocavo a calcio a 20 anni e che probabilmente col tempo è peggiorato. Con esercizi e tonificazione riesco a gestirlo, ma più vado avanti (diciamo pure più invecchio) e più facilmente il problema peggiora e crea fastidi. Mi dà anche altri esercizi utili per mantenere stabile l’articolazione.
Mi sento finalmente libero da fastidi e dolori, ma aspetto ancora a correre sul serio, lo faccio solo per brevissimi tratti mentre cammino coi cani, e va davvero meglio.


Sabato 16 provo a correre intorno a casa. Riesco a correre 42’ senza alcun minimo problema. Ok, ci provo per la UROC. Domenica faccio 2h30’ trail, senza forzare, ma vedo che tutto va al meglio, nessun fastidio, e gambe meno peggio di quanto pensassi.

Ottimo. Alla UROC non vedo iscritti grandi nomi, posso affrontarla senza grosse ansie e aspettative, senza spremermi, ma sarebbe utile come avvicinamento alle gare clou dell’anno, LUT e Wasatch.
Da martedì 19 a domenica 24 faccio ottimi allenamenti, forse un po’ troppo così vicino alla gara (comprese 4 ore sui sentieri la domenica) e troppo improvvisi dopo settimane quasi senza corse, ma ci provo e sto bene (don’t try at home).

Prima della UROC torno dal fisioterapista per un ultimo check. Il giorno della gara (e i giorni prima) ho un leggero fastidio alla coscia, ma niente di grave. In gara riesco a correre bene tutto il tempo, devo solo evitare di saltare in malo modo sui tratti più tecnici, ma per il resto sto benone.


Infatti parto in testa insieme ad un altro ragazzo nei primi 7-8 km facili, poi vado avanti in un tratto più difficile, e faccio tutta la gara conducendo e vincendo abbastanza facilmente. Non grande forma fisica, ma nemmeno terribile. Muscolarmente sto molto meglio di quanto pensassi.

Posso tornare ad avere fiducia per l’estate.



venerdì 22 aprile 2022

La frequenza cardiaca in bici: la differenza rispetto alla corsa

Altra domanda tipica che mi viene fatta. In bicicletta devo tenere sempre le stesse zone d’intensità usate per la corsa? Risposta, nì.

In bici sarebbe meglio usare le zone di intensità in base alla potenza, anziché il cardiofrequenzimetro. Non tutti hanno però un misuratore di potenza. Nel caso lo si abbia, servirebbero poi dei test per trovare la giusta potenza per i diversi range di intensità. Ma per chi ha solo un cardiofrequenzimetro e che usa anche negli allenamenti a piedi, la frequenza cardiaca in bici è tendenzialmente più bassa rispetto alla corsa, soprattutto in pianura, mentre più è ripida la salita e più la frequenza cardiaca si avvicina a quella della corsa (a parità di percezione dello sforzo), pur rimanendo leggermente diversa. Senza contare che per allenamenti intervallati la frequenza cardiaca non ha la risposta istantanea allo sforzo (esattamente come scritto anche nel precedente articolo), mentre col misuratore di potenza i watt sono istantanei, così che si può immediatamente capire se si è nel range giusto.

In ogni caso, un trucchetto può essere quello di usare le zone usate per la corsa, ma abbassandole di 10 in pianura e di 5 in salita quando si pedala.

Rimane sempre importante sapere gestire lo sforzo in base alle proprie sensazioni. Riuscire a regolarsi con la percezione dello sforzo non è per tutti facile, è un parametro soggettivo, ci vuole grande sensibilità e per molti è difficile da seguire, ma se si impara ad usarlo al meglio, magari anche insieme alla potenza e/o alla frequenza cardiaca, significa aver fatto bingo.

giovedì 21 aprile 2022

La frequenza cardiaca durante intervalli di breve durata

Su intervalli ad alta intensità di durata breve mi capita spesso di sentire persone rimanere sorprese per la frequenza cardiaca che non fa in tempo a salire fino a quella che dovrebbe la zona di intensità di riferimento (ad esempio 30"/30", o 1'/1'). Così come poi, viceversa, la frequenza non fa in tempo a scendere sufficientemente durante il recupero ad intensità molto bassa. Ma è normalissimo, la frequenza cardiaca non fa in tempo a salire così rapidamente, ha bisogno di alcuni minuti per raggiungere certi numeri, e in variazioni della durata di decine di secondi, o nei primissimi minuti di variazioni più lunghe, il tempo è troppo breve.

Se l'allenamento è svolto bene ed è della giusta durata, la frequenza cardiaca si dovrebbe man mano avvicinare alla zona di intensità richiesta. Nel migliore dei casi potrebbe rimanere a quella intensità per un tempo persino maggiore di quanto farebbe durante una sola ripetizione a intensità massimale.

Quindi per regolarsi sugli allenamenti intervallati è bene seguire il ritmo (se si è su un percorso segnato, mentre il GPS è affidabile fino ad un certo punto, perché a volte ha un leggero ritardo nell’aggiustamento della velocità, ma è pur sempre qualcosa), oppure la sempre soggettiva percezione dello sforzo. Questa serve soprattutto se le variazioni si fanno su percorso collinare o in salita, ma vale anche in pianura.

Ricordarsi sempre che il cardiofrequenzimetro è utile, ma non deve condizionare l’allenamento e non deve coprire la capacità di gestirsi secondo le proprie sensazioni.


giovedì 14 aprile 2022

Quando la frequenza cardiaca sembra essere troppo alta o troppo bassa

(Foto Trailaghi)
Mi capita spesso di sentire atleti preoccupati perché un giorno la frequenza cardiaca era molto alta, oppure perché era molto bassa. Dico sempre di non preoccuparsi, provando a capire quale sia la causa, se una forma scarsa, una forma buona, o un ritmo più alto (o più alto) che si è tenuto rispetto all’obiettivo dell’allenamento.
La frequenza cardiaca in allenamento è sempre da valutare in base a diversi fattori. Spesso si sente qualcuno preoccupato perché la frequenza è troppo alta, ma non significa essere per forza fuori forma, anzi. Potrebbe significare che si ha una certa freschezza, forse troppa, oppure altro. Così come una frequenza che non si alza a ritmi intensi non significa per forza essere in forma, anzi, molto probabile che invece sia il contrario e ci sia stanchezza, soprattutto se la bassa frequenza è accompagnata da sensazioni pessime.
Inoltre ci sono fattori ambientali, come caldo o freddo, o una situazione di disidratazione o altre cause metaboliche, che possono incidere sulla frequenza cardiaca.
Non è il singolo allenamento a dover far suonare un eventuale campanello d’allarme, ma il trend su più allenamenti in un certo arco di tempo, magari corsi con condizioni simili ad altri in cui la frequenza era molto diversa.

Il cardiofrequenzimetro è uno strumento che può essere molto utile, ma che bisogna saper usare nel modo giusto e i cui dati vanno interpretati di volta in volta nel modo corretto, senza farsi prendere dall’ansia quando si vedono numeri contrastanti e senza farsi condizionare troppo. Saper ascoltare le proprie sensazioni rimane sempre il miglior metodo per impostare il proprio passo.

mercoledì 13 aprile 2022

Frequenza cardiaca di riserva e zone di intensità

Non tutti usano il cardiofrequenzimetro, anzi, ma può essere un buono strumento per regolare il proprio ritmo. L’importante è non farsene ossessionare, riuscire a imparare ad ascoltarsi e usarlo insieme alla percezione dello sforzo e nel modo corretto.

Le zone di intensità calcolate in modo automatico dagli orologi sono spesso sballate, molto poco precise. Calcolare le zona in base alla frequenza massima può essere indicativo, ma se fatto con criterio. Ad esempio il 50% della frequenza massima che alcuni dispositivi indicano come frequenza per ritmi lenti è eccessivamente basso, vorrebbe dire andare molto probabilmente sotto i 100 bpm, che si può raggiungere praticamente camminando. Con questo metodo anche gli altri limiti per le diverse intensità (lento, medio, soglia, VO2max) sono probabilmente poco corretti.

L’ideale per trovare la giusta frequenza per le diverse zone di intensità sarebbe fare un test sul campo, che sarebbe molto più preciso. Tuttavia rimarrebbero le zone prese da quel singolo test, che non significa siano corrette al 100% e possano rimanere sempre le stesse nel tempo, dipende dalla forma di quel giorno e dalla forma di ogni singolo giorno, quindi sarebbe ideale fare diversi test nel tempo (lo stesso principio dei famosi algoritmi, più dati si hanno, più sarà preciso il calcolo). Per esempio se si fa il test in un giorno in cui la forma non è buona, si finisce per sottostimare le varie andature. Inoltre un test fatto in laboratorio ha altri condizionamenti importanti, anche se di sicuro misurare i livelli di lattato e altri parametri tutti insieme durante lo sforzo si può fare solo lì.

Senza test, un buon modo per calcolare le diverse zone di intensità sarebbe quello di usare le zone in base alla frequenza cardiaca di riserva, ovvero la differenza tra frequenza cardiaca massima e frequenza cardiaca a riposo. Alcuni orologi hanno la possibilità di usare questa impostazione, nonostante poi siano spesso impostati invece rispetto alla sola frequenza cardiaca massima.

Come si calcola? [FC max − FC riposo) × % Intensità] + FC riposo

Ad esempio, prendiamo un soggetto con 190 come FC max e 40 di FC riposo. Quindi 190-40=150. Da quel 150 calcoliamo 80%. Quindi 120. Ora aggiungiamo di nuovo le 40 a riposo. Risultato 160. Quella sarà il limite inferiore della zona intorno alla soglia anaerobica. Il limite superiore sarebbe al 90%, che in questo caso corrisponderebbe a 175. La soglia anaerobica vera e propria dovrebbe quindi essere a 167-168 battiti al minuto, all’85% della frequenza cardiaca di riserva.
Se invece pensiamo ad un soggetto che a riposo avrà 60 battiti al minuto, ma sempre con 190 di FC max. 190-60= 130. L’80% di 130 è 104. 104+60=164 battiti al minuto. Il 90% è 177, con una soglia anaerobica teorica di 170-171. Con una frequenza cardiaca a riposo più alta, sarà più alta anche la frequenza della soglia anaerobica, anche se di poco.
Oppure pensiamo a un altro soggetto che ha sempre 130 come differenza tra FC max (170) e FC riposo (40). 170-40=130, come l’esempio di prima. L’80% di 130 è sempre 104, ovviamente. Se a 104 aggiungiamo 40, ovvero la frequenza a riposo di questo esempio, il risultato sarebbe 144, ben più bassa dell’esempio di sopra. Il limite superiore della zona intorno alla soglia anaerobica, il 90% della frequenza cardiaca di riserva, sarebbe a 157 battiti, con una soglia anaerobica teorica intorno a 150-151.
Si nota come il numero sia sì più influenzato dalla frequenza massima, ma la frequenza a riposo ha comunque una certa importanza in una maggiore precisione del calcolo.

Piccola precisazione. È molto impreciso calcolare la propria frequenza massima col semplice calcolo 220-età, come alcuni fanno. Può funzionare nella media totale tra gli esseri umani, ma non singolarmente, visto che ci sono variabilità enormi. A 40 anni potrei avere 180 come frequenza massima, è molto probabile rispetto ad altri numeri, ma potrei tranquillamente averla anche a 160, o a 200. Per calcolare la frequenza massima bisognerebbe fare uno sforzo massimale di 6’-8’, dove il cuore fa in tempo ad arrivare alla sua frequenza massima.

Quindi quali sarebbero le diverse zone di intensità? Quale sarebbe la frequenza cardiaca di riserva per ogni zona?
Zona 1 (recupero, riscaldamento, defaticamento): <60% FC riserva
Zona 2 (lento aerobico): 60-70% FC riserva
Zona 3 (medio): 70-80% FC riserva
Zona 4 (soglia anerobica): 80-90% FC riserva
Zona 5 (velocità massima aerobica): >90%

Presto in altri articoli spiegherò alcuni accorgimenti per usare al meglio il cardiofrequenzimetro, senza farsi ingannare da veloci e imprecise interpretazioni.