mercoledì 26 gennaio 2022

Come (non) scegliere le scarpe da trail



Spesso mi viene chiesto consiglio per l’acquisto di scarpe da trail. Altrettanto spesso la mia risposta è “non saprei”, o qualcosa di simile. Primo perché non sono un grande esperto tecnico, nonostante l’esperienza nel trail running, le ore sui sentieri, le decine di scarpe provate e consumate, e sono molto poco aggiornato sulle novità degli ultimi anni; secondo perché è una scelta davvero soggettiva e che dipende da mille fattori; aggiungiamo un terzo, ovvero che ci sono già una quantità sterminata di siti, articoli e video con recensioni, la mia voce non vale per nulla più di altre, almeno su certe questioni tecniche.
Provo però lo stesso a dare qualche suggerimento che spesso do proprio a chi mi chiede, non tanto sui dettagli tecnici delle scarpe, ma su come orientare la scelta prendendo in considerazione certi aspetti magari meno valutati, e pensando che con le enormi differenze che si possono trovare sui percorsi, tra dislivelli, terreni, temperatura (!! – sembra una cavolata, ma la stessa scarpa cambia molto il suo lavoro tra un duro e compatto terreno invernale e lo stesso morbido e terroso terreno estivo) alla fine bisogna cercare sempre il miglior compromesso.

1. Evitare le mode. Ogni tanto salta fuori qualche novità che sembra essere il nuovo Santo Graal della scarpa che magari dopo un paio d’anni viene rivisto all’opposto (chessò, dall’esagerazione del minimal si è passato al super cushioning, ora le piastre in carbonio, domani chissà). Oppure c’è qualche scarpa che va tanto tra i top e che sarebbe figo provare, ma che molto probabilmente non va bene per il nostro piede.

2. Pronatore, supinatore, neutro… Io non ci ho mai capito molto, dato che il mio appoggio è da pronatore, ma ho il piede cavo e con problemi alla fascia plantare, con necessità quindi di un certo supporto all’interno. Insomma, la trovo una parte sì importante, ma se a livello muscolare ci sono già delle compensazioni sviluppate nel tempo, potrebbe essere meglio cercare qualcosa a salvaguardia della pianta del piede, anziché dell’eccessiva pronazione. Ma un podologo potrebbe tranquillamente smentirmi.

3. Scarpa protettiva, scarpa minimale, ibrida… Quando ho iniziato a correre trail ero molto tendente ad usare scarpe minimal, molto poco protettive, salvo poi avere problemi ai metatarsi, inserzione del tendine d’Achille, calli, fascite plantare, alluce valgo… Tutte cose che poi ho gestito abbastanza, tra un acciacchino e l’altro, soprattutto iniziando ad usare scarpe molto protettive. Mi piace ancora usare scarpe leggere per sentire al meglio il terreno, essere più reattivo (io che non sono troppo elastico), ma sono costretto ad alternarle a scarpe più protettive per evitare appunto quegli acciacchi classici, tenendo le scarpe più minimali per gli allenamenti più veloci. L’evoluzione dei vari modelli ora permette di avere scarpe ben protettive ma che allo stesso tempo permettono una buona percezione del terreno.

4. Drop 0, drop 2, drop 10… Anche qua è molto soggettivo, l’importante è affidarsi a scarpe con drop 0 se si è sicuri di quello che si fa, se si sa che il proprio appoggio e la propria struttura possano permetterselo, senza farlo solo perché si è letto da qualche parte che il differenziale tallone-punta dev’essere basso perché fa figo e si risolvono tutti i problemi. Magari lo fanno, o magari no, non è una certezza, anzi.

5. Scarpa da fango, da sentieri rocciosi, comoda sull’asfalto… In pratica la scarpa perfetta. Bè, inutile dire che la suola in certe condizioni è fondamentale. A meno che di abitare in luoghi prettamente fangosi, o di affrontare gare con certe caratteristiche ben specifiche, pure qua bisogna affidarsi al compromesso, sia pensando a come sono messi i sentieri su cui ci si allena, che quelli delle gare o della gara che vogliamo preparare. Ve lo devo dire che con la suola Vibram Megagrip si può avere un grip fantastico sul bagnato, resistenza e durata su terreni duri, stabilità etcera etcera...? Sul fango a fare la differenza è la tassellatura, per cui ci sono disegni di suola diversi. Con la possibilità di risuolare le proprie scarpe preferite con la mescola e la tassellatura che si vuole, ora si può avere sempre di più una scarpa personalizzata.

6. La larghezza. Viene raramente considerato, ma è importante anche questo. Ci sono modelli bellissimi, ma che non sono adatti al proprio piede, nel caso questo sia o particolarmente stretto o particolarmente largo. Io ad esempio soffro le scarpe strette in punta, che mi causano abrasioni o aumentano i fastidi all’alluce valgo, ma allo stesso tempo fatico anche con scarpe con troppo spazio sull’avampiede, che mi danno molta instabilità. Compromesso.

7. Il peso. Avere dei mattoni pesantissimi non è per forza sinonimo di sicurezza, dipende ovviamente anche dal proprio peso, da cosa si andrà a fare, ma anche una scarpa discretamente leggera può essere abbastanza protettiva. Più che il peso della scarpa bisogna capire la protezione generale che può darci in base alle nostre esigenze, perché una cosa è farci il Tor, un’altra un trail veloce di 40 km. Insomma, compromesso. L’ho già detto?

8. La tomaia. Ci sono scarpe bellissime la cui tomaia però si consuma ben prima della suola, o che si rovinano dopo pochissime uscite. Anche qua dipende da mille cose. Ci sono persone che disintegrano modelli che io ho usato all’inverosimile, e il contrario. Provando a sentire diversi pareri, diverse esperienze e tentando di capire quale potrebbe essere la soluzione migliore per se stessi, o andando ad esclusione, quella che è meglio evitare.

Poi ci sono mille altre cose, ma non voglio ingarbugliare ancora di più il discorso, visto che non dovevo entrare nel tecnico, ma ci sono entrato ben più delle mie conoscenze. Bè, importante è anche affidarsi ad un bravo e onesto rivenditore, provando le scarpe di persona e capendo quale sia il miglior compromesso, tenendo in considerazione le scarpe utilizzate finora, i percorsi che si andranno a fare e le proprie caratteristiche. Compromesso.

venerdì 21 gennaio 2022

I miei bei tempi dell'intensità invernale

Quando avevo iniziato a correre, tra 2004 e 2005, non facevo molte gare, solo successivamente ho inserito campestri in inverno, serali in estate, e altre gare durante tutto l’anno. Quando ho iniziato a correre ultratrail, nel 2010, facevo ancora alcune gare brevi, le trovavo sempre divertenti e allenanti. L’anno dopo, il 2011, ero arrivato a correre quasi ogni weekend, pure troppo, ma quasi solo trail e ultratrail, poche gare brevi. Avendo la sensazione e il timore di rallentarmi, in inverno provavo ad inserire comunque alcune campestri.

L’anno dopo, nel 2012, ero più selettivo per gli ultratrail, ne facevo meno ma meglio preparato, infatti continuavo a migliorare. Per l’inverno avevo in mente di dedicarmi per alcuni mesi a campestri o trail brevi, magari sulla neve, oltre a qualche ciaspolata. Volevo velocizzarmi, per quanto possibile, inoltre nei mesi più bui ho sempre faticato a fare volumi, non amando il freddo e dovendo affrontare i periodi lavorativi più pesanti, quindi pensavo potesse essere un buon compromesso, meno allenamenti e gare, ma più intense. Purtroppo però mi infortunai al termine della stagione, frattura da stress alla tibia, così i progetti per quell’inverno saltarono dopo poche gare corse col dolore.

Nel 2013 faticai un po’ nella ripresa post infortunio, ma conclusi bene la stagione con delle belle gare (e qualche solita normale delusione). Dopo una breve ricarica, da novembre partii con l’idea di fare quello che non ero riuscito nell’inverno precedente, gare brevi, allenamenti intensi, e nessuna corsa oltre l’ora e mezza di durata, solo un paio di sedute trail di 2h in vista dell’accoppiata Maratona di Ferrara e Maremontana di metà marzo. L’idea di fare diversi mesi con tanta intensità mi era venuta prendendo spunto dagli scialpinisti che dopo un inverno di gare a tutta, in estate andavano fortissimo anche con le scarpe da trail, oltre che da spunti dal ciclocross e ciclismo su strada. A quel tempo Wout Van Aert e Mathieu Van der Poel stavano dando spettacolo ancora tra le categorie giovanili (negli Under 23 in quell’inverno, tra gli juniores negli anni precedenti), ma c’era già l’esempio di Zdenek Stybar, campione del mondo di ciclocross e subito protagonista su strada. Seguivo già allora un po’ le gare di ciclocross, anche se solo leggendo i riassunti e guardando alcuni brevi video, mentre dall’anno successivo, con l’ingresso tra gli elite dei due fenomeni, l’interesse è diventato sempre maggiore, sia per me, che poi per più o meno tutti gli amanti del ciclismo, anche per via degli esempi di altri atleti forti nel ciclocross e poi competitivi su strada.

Insomma, ero già convinto allora che fare molta intensità in inverno potesse essere un 
ottimo modo di prepararsi in vista della stagione estiva. Per il 2014 avevo in programma non poche gare importanti a livello internazionale (Transvulcania, Maxi Race di Annecy, 80 km Mont Blanc, Ice Trail Tarantaise, Giir di Mont, Trofeo Kima, Diagonale des Fous), quindi pensavo potesse essermi utile migliorare per quanto possibile la velocità. Certo, ora so che non serve solo ammazzarsi di intensità per diventare più veloci, serve anche una solida base aerobica a ritmi lenti, ma era stato comunque davvero utile, soprattutto a livello mentale. In estate i ritmi intensi delle salite più tirate erano più facilmente sostenibili dopo le decine di minuti in acido lattico nei mesi freddi. Mi riappacificai anche abbastanza proprio con il freddo, ci cui non sono troppo amante, dopo diverse gare corse con temperature sotto zero in montagna.

Corsi una decina di campestri tra varesotto e alto milanese, 5 o 6 alcune ciaspolate in Valle d’Aosta, 2 o 3 serali su strada, 2 o 3 trail notturni sulla neve, compreso un vertical, 2 o 3 trail sulla neve, su corte distanze, mai oltre l’ora di gara, una 10 km su strada, più un paio di mezze maratone, sempre con personale limato e chiudendo appunto con la Maratona, dove feci il personale nonostante la totale mancanza di lunghi da 5 mesi. La settimana successiva al Maremontana esplosi completamente, ma sapevo che sarebbe successo senza preparazione adeguata. In settimana aggiungevo sempre almeno un altro allenamento intenso, a volte due. Forse anche troppo, alcune volte ero un po’ stanco, viste pure le non rare doppiette di gare sabato+domenica, ma mi divertii come un matto. E come detto, notai i risultati, con uno dei miei anni migliori, forse il migliore in assoluto per costanza di risultati. Credo di essere migliorato ancora un po’ negli anni successivi, ma con alti e bassi.

Con programmi diversi di gare e con i viaggi negli Stati Uniti, non ho praticamente più avuto inverni così intensi e così buoni. No, uno sì, anche se con sole 3 o 4 gare (e nuovo personale nella mezza maratona): nel 2018, quello dell’UTMB.

martedì 18 gennaio 2022

Tutta una questione di soldi? Differenze di prezzi pettorali UTMB-TOR vs US Trail Races

Tra le critiche che si rivolgono contro l’UTMB c’è il costo del pettorale, che si è gonfiato sempre di più ogni anno. Aggiungiamoci le lamentele del mancato rimborso del 2020. Critiche che vengono fatte anche al Tor des Geants. Critiche anche condivisibili, soprattutto vedendo la lievitazione dei costi rispetto a qualche anno fa.

Ora, io sono stato abbastanza critico nei confronti dell’UTMB verso la nuova formula e l’UTMB World Series, così come non sono mai stato un amante del Tor. E lungi da me fare l’avvocato del diavolo. È vero che i costi sono già alti anche senza considerare il pettorale, considerando viaggi, pernottamenti e spese varie. Non voglio nemmeno fare le pulci sul come vengono investiti quei soldi, se solo per arricchirsi o per dare un prodotto sempre migliore (o entrambe le cose, forse l’opzione più probabile). Voglio però spostare il discorso su un altro piano di ragionamento, soprattutto quando viene messo in mezzo il trail running negli Stati Uniti, dove “si prendono meno sul serio”, dove “le gare sono più a misura d’uomo”, dove si corre “senza tante menate”.

Ultima premessa, anche i costi delle gare americane hanno un perché, spesso per la manutenzione dei sentieri, per devolvere i fondi ai parchi coinvolti, per rientrare nelle spese da dividere spesso per un numero di partecipanti ridotto, ecc…

Dunque.
UTMB (170 km): 305 €
CCC (100 km): 189 €
TDS (145 km): 229 €
OCC (55 km): 115 €
Tor des Geants TOR330: 900 € (600 € per gli iscritti del 2020)
TOR450: 1110 € (800 € per gli iscritti del 2020)

E poi le americane, in dollari (per fare la conversione, al momento 100 $ equivalgono a circa 87 €, quindi 200 $ sono circa 175 €, 400 $ circa 350 € - arrotondando).
Western States (160 km): 410 $
Leadville (160 km): 375 $
Wasatch (160 km): 300 $
UROC (100 km): 210-230 $
Canyons (100 km, UTMB World Series): 275 $
Black Canyons (100 km): 295 $
JFK (50 miglia – 80 km): da 200 a 300 $ a seconda del periodo
Bandera (100 km): 190 $ (mi pare può variare anch’essa a seconda del periodo, ma quando mi ero iscritto avevo pagato quel prezzo)

E così via, più o meno con costi non troppo distanti. Anche in gare locali di 50 km è davvero facile trovare gare che vanno tra gli 80 e i 100 $. Persino le gare su strada non sono male. Ho provato a dare un’occhiata a mezze maratone o maratona non troppo lontane da Baltimore, i prezzi anche solo per i 21 km difficilmente vanno sotto i 50 $. Ho partecipato solo ad una 10 km lo scorso 4 luglio, 40 $.
In genere non ci sono rimborsi, tutto dichiarato già nei regolamenti, nemmeno con la pandemia ci sono state eccezioni, se non rarissimi casi, o con la possibilità di spostare l’iscrizione agli anni successivi. Non so il dettaglio per ogni gara, ma so di aver perso tutti i soldi dell’iscrizione alla Bandera a cui non ho partecipato, come quelli della Beaverhead 100 k in Idaho (altri 200 $ e passa, non ricordo di preciso e non voglio ricordare).

Le gare della Triple Crown of 200s, ovvero le ultra più simili al Tor des Geants, la Tahoe 200, Bigfoot 200, Moab 240 (i numeri stanno per le miglia, per la conversione in chilometri, moltiplicate per 1,6): 1495 $. Ognuna.

Il tutto considerando – certo – che reddito pro capite e costo della vita sono diversi, più alti negli Stati Uniti rispetto a Francia e Italia, però si può anche pensare che le gare americane citate, pur con distanze simili a quelle europee, sono anche generalmente più brevi come durata (per via dei percorsi più veloci), sono difficili da raggiungere, tra voli e viaggi in auto, e non ci sono gli stessi servizi e standard di soccorso europei. Ci sono servizi diversi non presenti (o scarsi) in Europa, come i pacer (non sempre), o le drop bag che vengono trasportate sul percorso (ma il Tor lo fa, ad esempio). Le differenze sono tante, ma spesso sovrapponibili. Ci sono pro e contro da entrambe le parti.

Tutto questa pappardella per dire che forse quelli che noi a volte vediamo come cattivoni non sono così cattivoni, e quelli che vediamo come superfighi non sono così superfighi. Che nel costo delle gare ci sono cose di cui non conosciamo un’acca, che il prezzo lo fa anche e forse soprattutto il mercato e lo fanno le dinamiche economiche (di cui sempre non conosciamo un’acca).

Niente, tutto qua. Il discorso potrebbe essere lunghissimo ancora, senza arrivare nemmeno ad una conclusione. Tutto questo solo per ricordare un’ultima volta che quando ci lamentiamo di qualcosa o esaltiamo qualcos’altro, assicuriamoci di sapere come stanno bene le cose. Certo, in questo ragionamento può rientrare la mia lamentela sulla struttura dell’UTMB World Series e i nuovi metodi di iscrizione, di cui io sicuramente non so tutte le dinamiche, ma è una lamentela in cui non inserisco il lato economico, che probabilmente c’è, ma non penso sia il problema principale della questione.

venerdì 14 gennaio 2022

Alcuni dei tanti motivi per cui sono critico con le novità dell'UTMB

Quando quest’anno sono stato critico nei confronti dei nuovi criteri di partecipazione all’UTMB (e non tanto nella creazione del circuito e della “finale” all’UTMB, allo stesso modo di Kona e Ironman – in realtà sì, ho criticato un po’ anche quello, ma è la parte meno importante del mio cattivo giudizio, e anzi, col tempo ho pensato che non c’è nulla di scandaloso in questo). Il motivo era principalmente perché vedevo quello che accade con la lottery per la Western States, temendo che possa accadere lo stesso anche per le gare di Chamonix. Ovvero? Che gli elite mondiali possono fare le gare direttamente qualificanti, piazzarsi, e guadagnarsi il diritti alla gara finale di Chamonix. Pura meritocrazia, e fin qua tutto ok, tutto giusto. Ci sono poi il resto delle persone che si possono guadagnare le “stones” per poi partecipare al sorteggio, stones che si possono accumulare col numero di gare a cui si partecipa, se ho capito bene (quindi chi può permettersi di iscriversi e viaggiare in giro per il mondo guadagna più possibilità). E qua già inizia a scricchiolare, e non poco. Certo, gli aspiranti partecipanti aumentano continuamente, rendere sempre più selettiva la possibilità (attraverso i punti delle gare qualificanti) di tentare la sorte ha funzionato fino ad un certo punto a limitarne il numero. Però almeno finora non importava il numero di gare fatte, visto che era sufficiente averne completate due, mentre ora, se puoi partecipare a 10 gare, hai più possibilità rispetto a chi può permettersene una. Molto poco meritocratica e molto selettiva daelle proprie capacità economiche.

E poi chi altro è penalizzato dal nuovo metodo? Gli outsider, gli underdog, quelli non abbastanza forti da essere elite, ma che possono piazzarsi bene e che magari in giornate particolarmente buone e situazioni fortunate possono anche inserire il garone. Io mi permetto di inserirmi qua. Io non sono elite, non scherziamo. I più forti al mondo mi danno ore, sono più veloci, più resistenti, più tutto. Attraverso il nuovo metodo di partecipazione, insomma, dovrei fare come i partecipanti “comuni” (brutto termine, lo so, non me ne sta venendo in mente uno migliore). Per carità, non sono nessuno, andrebbe anche bene così, se non fosse sbagliato (secondo me) e discriminante di base questo sistema per tutti i non-elite. E finirà che uno come me (non necessariamente io, ma qualsiasi trailrunner di buon livello, ma non abbastanza da piazzarsi nelle gare dell’UTMB World Series che danno accesso diretto a chi arriva nelle prime posizioni) potrebbe aspettare anni. Più o meno come accade alla Western States, o pure peggio.

Ecco, dopo un mio post (o commento) quando a maggio uscì la notizia, qualcuno mi disse che – appunto – questo metodo di iscrizione avviene anche alla Western Staes: risposi che la base è diversa. Intanto, alla Western States il numero di partecipanti è notevolmente ridotto, a causa delle restrizioni di accesso al parco. Questo metodo è nato nel tempo con l’aumentare delle domande di iscrizione. Però alla Western States le possibilità di venire estratti per i non elite (che possono qualificarsi direttamente con poche gare – finora era 3 o 4 ogni anno, ma dallo scorso autunno sono invece aumentate, con l’inserimento di gare internazionali, proprio per avere più partecipanti stranieri di alto livello) aumenta a seconda dei tentativi effettuati, non dal conto in banca che permette la raccolta di più gare, e quindi più biglietti per la lotteria.

E per quanto questo metodo della Western States sia davvero super democratico, è frustrante, molto frustrante. Io quest’anno avevo 32 biglietti, dati dal mio sesto tentativo. I biglietti si raddoppiano ogni anno. Nel 2015 era 1, poi 2, 4, e così via. Essendo saltata l’edizione del 2020, ho saltato forzatamente un anno. Insomma, senza pandemia, i 32 biglietti li avrei avuti per la lotteria dello scorso anno (che invece non è stata fatta), e 64 quest’anno. Sicuramente, col senno di poi, ho sbagliato a non tentare anche negli anni precedenti, quando avevo già la possibilità per delle gare qualificanti fatte. All’Hardrock, che ha lo stesso sitema, ma ancora più democratico (nessuna gara qualificante attraverso piazzamenti ai primi, solo molti più vantaggi per i “veterani”, ovvero chi ha già partecipato – in sostanza, ha più possibilità di venire estratto chi ha già concluso la gara, anziché chi non l’ha mai fatto… sì, in effetti non molto democratico nemmeno questo) avevo già provato dal 2014, ma qua le edizioni saltate sono state 2 (anche nel 2019 non si era corso, a causa della troppa neve), e quest’anno non avevo gare qualificanti.

Insomma, tutto sto pippone per dire cosa? Che una cosa sarebbe stata partecipare alla Western States quando avevo 34 o 35 anni, una cosa 2 o 3 anni fa, quando avevo forse la mia forma migliore, un’altra sarà quando (e se mai) verrò estratto a oltre 40 anni. Certo, la correrei anche se mi estraessero a 50 anni, ma ovvio che non sarebbe più per un risultato. Anzi, ormai correre per il risultato direi che è una cosa che sto convincendomi di escludere tra le motivazioni per qualsiasi gara. E qualsiasi possibile outsider che nei prossimi anni vorrà correre l’UTMB (dove outsiders avrebbero sempre maggiori possibilità di inserirsi nelle migliori posizioni rispetto ad altre gare sulla stessa distanza, a causa della particolarità dell’evento e del percorso) si potrebbe trovare a dover aspettare anni, passando magari il periodo migliore, perdendo occasioni irripetibili.

Ma forse sono io che mi lamento troppo.

mercoledì 12 gennaio 2022

I miei dati di Strava e cosa capirci, più o meno


Con la puntualità che mi contraddistingue, parlo un attimo dei miei numeri di Strava del 2021, cosa mi dicono e cosa mi suggeriscono per il 2022.

Al netto delle considerazioni fatte nel precedente articolo, ho trovato finalmente i lati positivi di Strava, grazie alla possibilità di avere uno storico delle attività fatte durante l’anno, per me che non avevo un vero e proprio diario dove segnare i miei allenamenti, se non per alcuni periodi. Ho potuto così vedere le ore dedicate alle varie attività, esclusi però tutti gli allenamenti indoor, esercizi, spinning, rulli, treadmill e stairmill (queste ultime due però quasi insignificanti nel 2021).

Dal 1° gennaio al 31 dicembre ho corso a piedi (o camminato, in gare e allenamenti trail) poco più di 400h, per un totale di quasi 4000 km e oltre 92 mila metri di dislivello positivo (numeri leggermente più grandi in realtà, se si aggiunge l’UTMB dove manca la registrazione per un mio errore nell’impostazione del GPS). In bici (la maggior parte in mtb negli USA, dove faccio molto meno volume rispetto alla bici da strada) “solo” 133h per 2500 km e 33 mila metri. Questi i numeri secchi outdoor, mentre aggiungendo una media di 1h settimanale indoor (ci sono settimane dove ho fatto molto di più e altre dove ho fatto molto di meno o niente del tutto), dovrei sfiorare le 600 ore. Si potrebbero aggiungere le camminate coi cani, dove magari saltava fuori anche qualche corsetta, ma non le conto come vero allenamento, altrimenti in passato avrei dovuto inserire i dislivelli fatti nei palazzi delle case quando lavoravo in Croce Rossa😊.

Sono poche? Sono tante? Sono quello che sono. Di certo quelle 600 ore sono poche in confronto ai più forti ultratrailrunners del mondo, capaci di farne intorno alle 1000, o oltre, più o meno come i fondisti (di sci) o i ciclisti professionisti, quindi direi non poco, considerando anche che correndo in pianura sono necessarie meno ore (infatti i maratoneti di solito fanno meno ore rispetto agli appena citati sport). Non sono tanti i chilometri, perché non sono velocissimo e ho corso molto a ritmi forse troppo lenti, ma torno dopo su questo punto. Credo in passato di aver fatto di più, soprattutto per quello che riguarda il dislivello, che a Baltimore riesco a fare senza accumulare grandi numeri. Sembra paradossale che quando lavoravo in Croce Rossa riuscissi a fare di più, ma di sicuro potevo organizzarmi meglio allenamenti più specifici rispetto a ora, senza pensare a tutti i casini presenti (tipo la pandemia). Considerando che in tutto l’anno ho fatto più di un mese di riposo quasi assoluto (due settimane di totale inattività dopo la JFK di fine novembre, una dopo l’UTMB, ma anche una settimana super light post UROC e un’altra post UTLO) e che a dicembre ho fatto pochissimo, non è stato poco. Ho fatto non pochi doppi, almeno nella prima parte dell’anno, sebbene tra 2019 e 2020 (almeno nei periodi in cui era possibile allenarsi con uno scopo ben preciso) ne avessi fatti probabilmente di più.


Fino a fine agosto sono convinto che fosse andato tutto bene, poi una nota serie di sfighe, di cali di motivazione e di forma mi hanno fatto un po’ patire nel finale di stagione, ma credo che il programma di base fosse buono. Però cambio. Non ho idea di quanto farò nel 2022, ho un’idea di base almeno fino a metà anno, poi bisognerà vedere come starò, come andranno le cose in generale, che gare farò, eccetera. In quest’idea di base c’è il pensiero di fare meno doppi, più mtb, un po’ più allenamenti indoor, ma fare gli allenamenti di corsa in modo leggermente diverso. Meno volume, come accennato, ma di leggera migliore qualità. Rimango su un allenamento polarizzato, ovvero con la stra grande maggior parte delle ore a ritmi lenti, e poco tempi intenso, ma molto intenso, però in modo diverso.

Il volume è importante, ma è importante anche come viene svolto quel volume. Se mediamente si corrono i lenti in modo troppo veloce, finendo per fare una gran percentuale di allenamento a ritmi che in realtà sono più vicini ad un medio o anche oltre - e che alla lunga portano ad un ristagno o un peggioramento delle prestazioni, convinti che per andare forte bisogna sempre andare forte -, io ho spesso avuto il difetto contrario, ovvero di fare i lenti troppo lenti. Non che fosse sempre voluto, spesso mi sono allenato lentamente perché stanco dal carico, finendo però per fare sedute che non erano né defaticanti, né allenanti. Fare meno volume potrebbe aiutarmi a fare gli allenamenti lenti in modo leggermente più brillante, ma senza che sfocino in ritmi medi (a meno che di sedute specifiche su quelle intensità).

Train less, train smarter, per citare un motto all’americana, ben lontano dal no pain no gain, che fa molto figo e che forse finalmente si sta capendo non essere il modo migliore per… migliorare.