martedì 30 novembre 2021

Allenarsi rimanendo liberi

Senza voler sfruttare una parola che nei tempi sta venendo sempre più violentata, mi sento di voler dire che il trail è libertà. O meglio, è anche libertà, di correre senza ansie cronometriche, camminando se necessario, fermandosi a godere dei panorami e della natura, andando con gli amici in giro per monti o boschi per ore, eccetera.

Ma quindi come ci si può allenare seguendo un piano un minimo strutturato e allo stesso tempo avere libertà di fare quello che si vuole e che ci si sente di fare sui sentieri? Bè, come allenatore il mio compito non è quello di dare tabelle da seguire in modo rigido e senza sgarrare. Forse c'è anche chi lo fa, e probabilmente funziona pure, ma io preferisco un altro approccio. Di certo c'è chi segue gli allenamenti proposti in modo maniacale, ma lascio sempre la possibilità di divertirsi con gli amici o di sforare nei tempi, oppure di fare di meno se quel giorno le cose non vanno al meglio e gli impegni prendono il sopravvento, evento più che normale per chiunque non sia un professionista.

In fondo trovo che un bravo allenatore non sia tanto (o solo) quello capace di fare i test in laboratorio e dare la “tabella perfetta" (che comunque non esiste), ma quello che sa adattare il programma di volta in volta, lasciando un certo grado di libertà all'atleta (bè, entro certi limiti). Come scrivere non è solo “scrivere” ma “ri-scrivere”, allenare non è solo programmare, ma ri-programmare.



mercoledì 24 novembre 2021

La mia JFK 50 mile - terza e ultima parte, brevi riflessioni post gara

Guardando la classifica e le edizioni precedenti, col tempo di quest’anno sarei finito 14° lo scorso anno (con davanti solo Camille Herron tra le donne), 19° nel 2019, 11° nel 2018, etc… Jacobs, 10°, col sul tempo nei precedenti anni sarebbe arrivato 8° nel 2020, 7° nel 2019 e 2018, 4° nel 2017, etc…. È anche stata la prima volta che i primi 6 abbiano fatto 5h46’ o meno, un tempo che avrebbe permesso di vincere in svariate edizioni, praticamente sempre prima del 2010, e questo nonostante in 3 dei primi avessero sbagliato strada!

I confronti tra un anno e l’altro sono sempre da prendere con le pinze, quest’anno forse il meteo fresco e secco ha aiutato non poco, ma di certo il livello medio di sta continuamente alzando, ci si allena meglio, ci sono scarpe più performanti, più giovani dal gran motore che ci provano... e io intanto invecchio.

Il mio tempo è più alto rispetto alle 6h31’ dell’Eco Trail de Paris di 2 anni fa - dove persi forse anche 10’ a causa di un errore di percorso - gara dal chilometraggio uguale, ma con molto più dislivello rispetto alla JFK, segno che, oltre ad una diversa forma, avere tanti km dove soltanto correre può essere davvero molto svantaggioso per chi come me non è abituato a questo tipo di sforzo.

Più o meno nelle gare che faccio finisco così: prima partecipazione ritiro, seconda prendo le misure e alla terza riesco a fare una bella gara. Magari succederà anche qua.

Cose di cui sono contento:
- Aver partecipato a questa che è la più vecchia ultramaratona americana, una delle più partecipate e importanti, e anche una delle rare che non si corrono nel nulla, con un minimo di partecipazione di pubblico del luogo;
- Aver finito la corsa e in condizioni tutto sommato buone, nonostante le difficoltà;
- Non aver avuto problemi di muscolatura da microtraumi dovuti dalla ripetitività del gesto – segno che almeno in questo ero ben allenato, mentre non ero ben allenato per la lunga distanza di pura corsa che ha invece causato i dolori ai flessori dell’anca;
- La perfetta strategia alimentare in gara, ma anche pre gara: quest’anno a UROC, UTLO e JFK non ho avuto problemi di questo tipo, solo all’UTMB le cose sono andate male;
- L’aver scoperto l’utilità della cintura-marsupio in gare veloci come queste americane;
- Ho imparato un milione di altre cose sulla preparazione e la gestione di gare così corribili;
- E tanto altro.

Non sono mica solo un lamentone!

(fine terza e ultima parte)

martedì 23 novembre 2021

La mia JFK 50 mile - seconda parte, la gara

Lo scorso anno la JFK era stata l’unica gara importante ad essere corsa in tutto l’intero anno, quindi si erano presentati tanti tra i top runners americani. Quest’anno sembrava la concorrenza sembrava minore… ma sembrava, esatto, perché in realtà visti i tempi alla fine…

Nelle prime centinaia di metri mi sentivo super agile, andavo “facile”, ma forse fin troppo, nonostante il freddo (- 1° C alla partenza, o forse anche qualcosa meno). Di sicuro sentivo la scioltezza dovuta al molto riposo degli ultimi giorni, che in fondo può non essere un male nemmeno in futuro, visto che io tendo sempre a fare non poco fino a ridosso della gara. Nei primi 4 km in leggera salita su asfalto ho preso comunque un passo buono, ma senza forzare. Guardando poi su Strava, ho visto che nei primi 4 km quest’anno sono andato 40” più veloce dello scorso anno. Credo che aver usato la cintura della Instinct al posto dello zainetto minimal possa avermi aiutato parecchio a correre in modo più economico. In questi primi km ho potuto vedere e salutare Paul Jacobs, ragazzo con cui l’anno scorso avevo lottato per tutto il tempo all’Hashawha Hills 50k, proprio nei giorni dei primi lockdown in Italia, l’ultima gara americana pre pandemia. E così fino a più o meno al 9° km, dopo una ripida salita su asfalto, la più dura della gara, quando inizia la parte più interessante dell’Appalachian Trail. Ero in coda ad un gruppetto che viaggiava per il 15° posto, in linea con le mie previsioni. Controllando poi sempre su Strava, ho notato che ero circa 1’30” più veloce rispetto al 2020.

Qua lo scorso anno sbagliai sentiero, ma stavolta hanno “fettucciato” chiudendo la variante che avevo preso io. Essendo molto più a mio agio sui sentieri rispetto agli altri del gruppetto, ho guadagnato posizioni, lasciando davanti solo un ragazzo durante una discesa abbastanza semplice, pensando che presto ci sarebbe stata occasione per passarlo e proseguire del mio passo. Però ecco che ad un certo punto davanti vediamo 3 ragazzi tornare indietro, tra cui Anthony Kunkel, biondino del Colorado, che era partito in testa e che qua ha già corso altre 5 volte (quindi non si può dire che non conoscesse le insidie del percorso). Ritrovati più o meno in una decina a guardarci intorno e a discutere se fosse il percorso giusto o meno, siamo risaliti tornando indietro tra imprecazioni di ogni genere (ci ho dato dentro pure io, che nonostante le mie scarse capacità linguistiche inglesi, con le parolacce me la cavo bene). Risaliti e trovato il sentiero giusto, riprendiamo. Dai dati di Strava dovrei aver perso circa 4 minuti.

La rabbia (agonistica) mi ha portato a spingere per recuperare, soprattutto sulle parti più tecniche, dove andavo letteralmente al doppio degli altri che passavo, decine di atleti che nel frattempo ci avevano sorpassato. Ho lasciato indietro tutti i compagni di errore (compreso Kunkel, che mi ha raggiunto e passato solo quando il sentiero è tornato più facile), però spendendo un po’ troppo. Anche provando a respirare e recuperare nei tratti più semplici, ormai avevo consumato non poche energie. Rimonto ancora, sorpassando le prime 3 donne, fino a che non trovo più nessuno da raggiungere, troppo lontani davanti a me. Arrivo al ristoro di Weverton - al termine dell’Appalachian Trail, verso il 28° km circa – intorno al 17° posto. Mi fa assistenza Eleonora, la quale ha potuto notare come tutti i primi in classifica si siano cambiati le scarpe, indossando modelli velocissimi da strada per quello che ci aspetta nel resto della gara.

Parto per questa lunga maratona sul canale con le gambe che tutto sommato stanno bene, e confido di poter recuperare. Mi piazzo sui 4’30”/km, non volendo forzare e sperando di poter aumentare più avanti, ma mi passarmi subito 3 o 4 atleti. Dopo pochi km, mi passa anche la prima donna. Nel frattempo il gps non prende più, mi dà dei ritmi folli, quindi non posso nemmeno più gestire la velocità in modo preciso, ma devo andare solo in base alle mie sensazioni. Tutto va benino fino a metà circa del canale, poi inizio a sentire la fatica, rallentando un poco. E continuano a passarmi atleti. Mi passa anche Jacobs con una corsa davvero agile ed efficace, che proseguirà la sua rimonta fino ad arrivare 10° in 6h11’, il tempo che sognavo io, più o meno. Anche lui era nel gruppetto che aveva sbagliato strada, ma se l’era presa con calma, arrivando a Weverton 5’ dopo di me. Devo capire ancora tanto di questa gara, evidentemente. Mi passano altre donne, vanno con una costanza e un passo davvero notevoli. Io invece arranco. Non ho grosse crisi energetiche o altri problemi, semplicemente non sono abbastanza allenato per correre tanto a lungo, specialmente dopo le prime due ore tra salite e sentieri, così si stanno infiammando tutti i flessori dell’anca, alzare le gambe è sempre più difficile e la corsa è sempre meno efficace. Non vado in crisi, solo che non posso andare più veloce.

Finito l’interminabile canale, si arriva all’asfalto, dove uno strappo breve ma ripido porta all’inizio del tratto finale che in confronto è per me una passeggiata, grazie a qualche saliscendi che permette di modificare un po’ il passo e in qualche modo recuperare. Nonostante i dolori, la fatica e le salitelle, non vado molto oltre i 5’/km. Non sono lentissimo, eppure continuano a passarmi atleti. Solo pochi sono “esplosi” di quelli che mi erano davanti.

Nell’ultimo chilometro vorrei andare tranquillo, nonostante davanti abbia un ragazzo che sta rallentando, ormai l’importante è finirla, una posizione in più o in meno non mi cambia molto. Proprio ad un centinaio di metri dall’arrivo, un ragazzino di 20 anni (uno dei pochi in crisi che avevo passato pochi chilometri prima) trova energie nascoste per lanciare uno sprint e sorpassarmi. Inizialmente non mi interessa, poi però mi scatta la voglia di non mollare e sprintare, ma ormai è tardi, perdo da lui e per una manciata di secondi non raggiungiamo nemmeno il ragazzo davanti. Finisco 24° assoluto in 6h38’50”, 21° uomo, con davanti a meno di un minuto altri 4 atleti.



- fine seconda parte -

lunedì 22 novembre 2021

La mia JFK 50 mile - prima parte, la (breve) preparazione

La JFK 50 mile era tra i miei obiettivi principali dell’anno, ancora di più dopo la delusione dello scorso anno, quando sbagliai strada dopo pochi km, perdendo svariati minuti e fermandomi al primo ristoro, travolto da uno sconforto generale.

Conoscendo la difficoltà e la particolarità della gara avevo in mente di dedicare due mesi pieni di allenamento mirato, essendo un percorso più da centochilometristi che da trailrunner. Infatti, dopo i primi 25 km con un po’ di dislivello e su sentieri non facili dell’Appalachian Trail, ci sono 42 km esatti totalmente piatti lungo la stradina che costeggia il Potomac River, e infine altri 13 circa di leggeri saliscendi su asfalto. Io che non ho mai corso un’ultramaratona su strada o pianeggiante (se non una 50 km nel luglio dello scorso anno, la prima gara post lockdown), avrei avuto bisogno di tempo per prepararla. Peccato che dopo l’UTMB un settembre non poco complicato prima, con forze scarse, sia fisiche che mentali, e l’essere stato costretto a rimanere in Italia fino a inizio novembre poi, abbiano sconvolto l’idea che avevo sul modo di prepararmi. Ho potuto approfittarne per correre la Vibram UTLO 100, finita in condizioni decenti nonostante la pessima forma, ma di certo non l’ideale prima della JFK.

Infatti, dopo la gara di Omegna, mi sono dovuto prendere un'altra settimana di recupero generale, per poi avere un solo mese di tempo per prepararmi alla gara in Maryland. La prima delle 4 settimane era dedicata ad una ripresa graduale della corsa in pianura, senza esagerare. Alla fine, del mese di tempo avuto, solo nella seconda settimana sono riuscito a fare un buon volume totale, sui 150 km, compreso un lungo di 48 km tra i laghi di Varese e Comabbio, corso bene dopo le ripetute in salita del giorno precedente. La gara più simile alla JFK che ho corso in vita mia si può dire che sia stato l’Ecotrail di Parigi del 2019: anche in quel caso feci il giro dei laghi come allenamento due settimane esatte prima, e posso dire di averlo finito in condizioni migliori questa volta.

Poi però dovevo tornare negli Stati Uniti, e tra la preparazione e il nervosismo pre partenza e il viaggio, per 3 giorni ho fatto praticamente niente, e anche nei successivi giorni fisicamente ero a terra, tra jet-leg e stanchezza generale. Solo negli ultimi 3 giorni prima della gara mi sono sentito di nuovo in condizioni quantomeno decenti.

E poi la gara…

(fine prima parte)