venerdì 12 luglio 2019
Allenamenti col caldo: soluzioni, accorgimenti, alternative
Allenarsi in estate per l’ultratrail è sempre dono e maledizione. Le giornate sono lunghe, la montagna è nel pieno del suo splendore, ma spesso il caldo può fare brutti scherzi. È facile arrivare in buona forma ad aprile/maggio, dove già sono presenti una buona parte di belle gare molto lunghe. Già questo rischia di far arrivare nel periodo di giugno/luglio in calo prestativo e a volte anche motivazionale. Il caldo di sicuro gioca la sua parte nel far aumentare questo rischio. La prestazione ne risente, le sensazioni peggiorano, la voglia di faticare diminuisce sensibilmente. Alcuni piccoli accorgimenti nell'allenamento – oltre i classici e semplici consigli riguardo l'orario di allenamento, alimentazione e idratazione, - possono essere molto utili per non giocarsi questi mesi estivi, soprattutto se gli obiettivi principali sono in tarda estate.
Le cose più banali possono non essere mai abbastanza scontate.
- Darsi un periodo di adattamento al caldo, che può variare dai 7 ai 15 giorni.
- Cercare di correre nelle prime ore del mattino o alla sera, almeno gli allenamenti più intensi.
- Ridurre il numero di allenamenti intensi, oppure farli indoor, anche se certo, correre sul tapis-roulant in estate suona un po' strano.
- Preferire allenamenti intensi basati sui minuti e non sulle distanze, sia per evitare confronti cronometrici poco comparabili con allenamenti con condizioni climatiche favorevoli, che per poter modulare lo sforzo sulle base delle sensazioni fisiche
- Evitare o ridurre allenamenti di intensità estensiva (ripetute lunghe, medi…), preferendo fartlek brevi e interval training, meno stressanti e a volte più facili da eseguire in percorsi in ombra. Altri utili allenamenti veloci possono essere le gare serali, solitamente tra i 5 e i 10 km.
- Se è proprio necessario fare allenamenti sulla soglia anaerobica, meglio effettuali su salite brevi o medie, sia sempre per evitare il confronto coi propri ritmi più veloci in pianura, che perché spesso in zone boschive è più semplice avere a disposizione zone all'ombra.
- Fare tanta bicicletta. Questo è un mio noto mantra, ma in estate lo trovo davvero fondamentale. Lunghi a piedi di 4, 5 o 6 ore col caldo rischiano di prosciugare (letteralmente) se non fatti in montagna a temperature accessibili. Con lo stesso tempo in bicicletta è possibile accumulare migliaia di metri di dislivello con meno stress psicofisico, con probabilmente una maggiore possibilità di reperire acqua sul percorso, e mantenendo una buona intensità sulla tenuta, soprattutto se si effettuano lunghe salite.
giovedì 30 maggio 2019
Bastoni sì o bastoni no?
Bastoni sì – bastoni no. Da sempre il mondo del trail running si pone di fronte a questo eterno dilemma. Non c'è gara di trail dove i dubbi assalgono i partecipanti. Serviranno i bastoni? Mi saranno utili? O mi saranno d'intralcio? Rispondere non è facile perché i fattori che entrano in gioco sono moltissimi. Chi viene dal mondo della corsa su strada (come me, anche se mi sembra quasi preistoria) tende a voler farne a meno a tutti i costi, fino a che non ne trova benefici e capisce che in alcuni casi i bastoni sono davvero irrinunciabili.
È stato recentemente dimostrato come non ci sia un reale vantaggio in termini di velocità ascensionale e come il costo energetico dell'utilizzo o meno dei bastoni sia molto simile (Giovanelli N, et al. Eur J Appl Physiol. 2019). Allora perché usarli? Detto banalmente, perché si usano molto meno le gambe, la spinta sui piedi è minore, e alla lunga il loro utilizzo diventa vantaggioso ritardando l'insorgenza della fatica. Mi spiego meglio con un esempio personale. Io non sono mai stato un fan dei bastoni, quelle rare volte in cui in passato ci provavo avevo la sensazione di avere come un freno, le gambe sembravano avere forze da poter spendere, ma senza riuscire a farlo. Questo perché la frequenza cardiaca era molto alta e l'affanno respiratorio importante, ciò dovuto all'impiego degli arti superiori poco allenati, con una tecnica approssimativa e con bastoni dal peso non irrilevante. Ma con il miglioramento della tecnica e l'utilizzo di bastoni ultraleggeri il vantaggio dell'avere gambe più fresche si è potuto presto notare. Ora non li uso in tutte le gare, ma riesco a trarne beneficio in molte occasioni, soprattuttoin gare lunghe e dal dislivello importante. Sorge infatti il problema di come comportarsi in caso di percorso tecnico, con discese dove non sapere come tenere i bastoni, o in gare corte dove non perdere tempo a piegarli e legarli allo zainetto o alla cintura. Ecco perché in certi casi è difficile dare una risposta univoca alla domanda se siano vantaggiosi o meno i bastoni. Dipende dall'utilizzo che se ne fa, dalla tipologia di percorso, dall'obiettivo, dalle caratteristiche personali, dalla capacità di correre su pendenza arcigne…
È invece diventato fondamentale usarli in gare oltre i 100 km con molto dislivello, per non parlare dell’UTMB, dove ormai tutti i più forti si sono convinti e convertiti. Senza contare il Tor de Geants, dove è pressoché la norma. Il perché in gare così lunghe siano fondamentali è presto detto. La corsa su basse pendenze non è fatta ad alta velocita, quindi con i bastoni la meccanica è diversa solo in parte, senza perdere efficacia, e anzi, proteggendo in parte i piedi. Su pendenze impegnative, dove è conveniente e necessario camminare, l'uso dei bastoni permette di non sovraccaricare i muscoli flessori delle gambe, i polpacci, i glutei, i lombari, mantenendo una postura più dritta. La salvaguardia delle gambe permette di avere maggiore freschezza nella successiva discesa o su falsopiano. La migliore postura permette anche una miglior respirazione e una miglior digestione, elemento fondamentale in gare lunghissime. Provate a pensare a quanto ci si può chinare in giù su una pendenza ripida senza avere i bastoni e a quanto venga così schiacciato lo stomaco: ecco, usando i bastoni il busto rimane più alto, lo stomaco più aperto, permettendo una miglior digestione e riducendo il rischio di problemi alimentari. Inoltre anche a livello delle spalle non si rischia di “incassarsi", ma anzi, esse rimarranno più aperte proteggendosi da eventuali fastidi a catena su tutto il tronco.
Per riuscire ad usare in modo adeguato i bastoni è necessario abituarsi e allenarsi nel modo corretto, sia con giri lenti che con allenamenti più intensi dove migliorare la tecnica e di conseguenza ottimizzare la spesa energetica.
È stato recentemente dimostrato come non ci sia un reale vantaggio in termini di velocità ascensionale e come il costo energetico dell'utilizzo o meno dei bastoni sia molto simile (Giovanelli N, et al. Eur J Appl Physiol. 2019). Allora perché usarli? Detto banalmente, perché si usano molto meno le gambe, la spinta sui piedi è minore, e alla lunga il loro utilizzo diventa vantaggioso ritardando l'insorgenza della fatica. Mi spiego meglio con un esempio personale. Io non sono mai stato un fan dei bastoni, quelle rare volte in cui in passato ci provavo avevo la sensazione di avere come un freno, le gambe sembravano avere forze da poter spendere, ma senza riuscire a farlo. Questo perché la frequenza cardiaca era molto alta e l'affanno respiratorio importante, ciò dovuto all'impiego degli arti superiori poco allenati, con una tecnica approssimativa e con bastoni dal peso non irrilevante. Ma con il miglioramento della tecnica e l'utilizzo di bastoni ultraleggeri il vantaggio dell'avere gambe più fresche si è potuto presto notare. Ora non li uso in tutte le gare, ma riesco a trarne beneficio in molte occasioni, soprattuttoin gare lunghe e dal dislivello importante. Sorge infatti il problema di come comportarsi in caso di percorso tecnico, con discese dove non sapere come tenere i bastoni, o in gare corte dove non perdere tempo a piegarli e legarli allo zainetto o alla cintura. Ecco perché in certi casi è difficile dare una risposta univoca alla domanda se siano vantaggiosi o meno i bastoni. Dipende dall'utilizzo che se ne fa, dalla tipologia di percorso, dall'obiettivo, dalle caratteristiche personali, dalla capacità di correre su pendenza arcigne…
È invece diventato fondamentale usarli in gare oltre i 100 km con molto dislivello, per non parlare dell’UTMB, dove ormai tutti i più forti si sono convinti e convertiti. Senza contare il Tor de Geants, dove è pressoché la norma. Il perché in gare così lunghe siano fondamentali è presto detto. La corsa su basse pendenze non è fatta ad alta velocita, quindi con i bastoni la meccanica è diversa solo in parte, senza perdere efficacia, e anzi, proteggendo in parte i piedi. Su pendenze impegnative, dove è conveniente e necessario camminare, l'uso dei bastoni permette di non sovraccaricare i muscoli flessori delle gambe, i polpacci, i glutei, i lombari, mantenendo una postura più dritta. La salvaguardia delle gambe permette di avere maggiore freschezza nella successiva discesa o su falsopiano. La migliore postura permette anche una miglior respirazione e una miglior digestione, elemento fondamentale in gare lunghissime. Provate a pensare a quanto ci si può chinare in giù su una pendenza ripida senza avere i bastoni e a quanto venga così schiacciato lo stomaco: ecco, usando i bastoni il busto rimane più alto, lo stomaco più aperto, permettendo una miglior digestione e riducendo il rischio di problemi alimentari. Inoltre anche a livello delle spalle non si rischia di “incassarsi", ma anzi, esse rimarranno più aperte proteggendosi da eventuali fastidi a catena su tutto il tronco.
Per riuscire ad usare in modo adeguato i bastoni è necessario abituarsi e allenarsi nel modo corretto, sia con giri lenti che con allenamenti più intensi dove migliorare la tecnica e di conseguenza ottimizzare la spesa energetica.
mercoledì 8 maggio 2019
Camminata in salita
Una delle domande più classiche rivolte dai non addetti ai lavori ai trailrunners è: “ma corri sempre anche in salita?”. La risposta è praticamente sempre la stessa: “no, in salita si cammina molto”, soprattutto se è molto ripido. Andrebbe da sé pensare che nel proprio piano d'allenamento la camminata in salita abbia uno spazio importante, ma molto spesso non è così.
Ma quanto si corre e quanto si cammina? Dipende dalla lunghezza della gara, dal terreno, dalla pendenza della salita e dal livello dell'atleta. In un vertical come quello di Campodolcino i più forti corrono sempre, mentre in vertical come La Fully o Crepa Neiga (Dolomites) camminare con l'aiuto dei bastoni è molto più conveniente. In gare sui 40 o 50 km anche i più forti al mondo devono camminare in molti tratti, per non parlare di ultratrail oltre i 100 km o una 100 miglia “montagnosi" (come UTMB, Diagonale de Fous o Hardrock) dove solo i più forti possono correre nelle prime salite sotto il 10% di pendenza media, mentre nella seconda parte diventa difficile correre anche oltre il 5%.
Bè, ma come si allena la camminata in salita? Ovviamente la si allena durante gli allenamenti più lunghi, ma possono essere importanti anche allenamenti di intensità, delle vere e proprie ripetute camminando su salita ripida per tratti più o meno corti a seconda dell'obiettivo della sessione. Ma c'è un altro piccolo aspetto molto spesso trascurato: il camminare in salita durante le sedute lente più breve, la classica ora di fondo lento, ad esempio. Se fatto su percorso collinare, anche per l’amatore senza ambizioni di classifica è normale pensare di dover correre il più possibile, facendo però sfociare quella che doveva essere un allenamento a ritmo lento in un fartlek con tratti a soglia o addirittura oltre, per il semplice tentativo di voler provare a correre il più possibile, quasi fosse un’onta camminare. Se ci si vuole allenare totalmente liberi da vincoli, si può benissimo fare, ma se si sta tentando una minima struttura sensata negli allenamenti, la seduta di “lento” dovrà essere… lenta, quindi inserendo anche dei tratti di camminata nelle pendenze più ripide, specialmente se quella che si sta preparando è una gara dove su quella pendenza si camminerà. Ne beneficeranno sia le gambe (che il giorno successivo potranno essere più fresche per un allenamento più specifico) che il fisico (che vedrà ridotto il rischio di cadere nel sovraffaticamento).
Ciò non toglie che alcuni allenamenti in salita si possano (e si devano) fare spingendosi a correre in pendenze più impegnative, in sedute specifiche finalizzate al miglioramento della qualità muscolari e aerobiche. L'importante è semplicemente che il “lento” sia davvero lento e che la camminata non venga trascurata e pensata come attività minore non necessaria alla riuscita di un ultratrail.
È fondamentale inserire degli allenamenti specifici di camminata in salita, per tratti brevi, medi o lunghi, con ripetute, variazioni o intensità costante, coi bastoni o senza, il tutto in funzione dell'obiettivo e del miglioramento di qualità in cui si è meno performanti.
venerdì 3 maggio 2019
Corsa lenta e corsa lenta
Uno degli errori tipici di chi corre, atleta evoluto o meno, su sentiero o su strada, in salita o in pianura, è quello di sovrastimare il ritmo del “lento", andando troppo forte e finendo per lavorare vicino o dentro la zona del “medio", o facendo dei veri e propri fartlek nel caso di allenamenti collinari.
C'è innanzitutto da specificare che esistono “lento" e “lento". Dipende da qual è l’obiettivo della seduta. Se è un lento per accumulare lavoro aerobico, allora il ritmo sarà intorno al 70-75% della propria frequenza cardiaca massima, un ritmo che permetta di parlare abbastanza facilmente, con affaticamento muscolare molto leggero, insomma, uno sforzo sostenibile (teoricamente) per diverse ore (sempre però a seconda del proprio livello atletico). L'altro tipo di “lento" invece può essere una seduta di recupero, quindi un “lento rigenerativo", con ritmi davvero blandi, dove è bene non badare alla velocità, mantenendo le pulsazioni intorno o al di sotto del 70%, con possibilità di parlare molto tranquillamente, sforzo muscolare davvero minimo, insomma, il puro jogging, una seduta più utile per recuperare gli sforzi dei giorni precedenti piuttosto che per fini puramente allenanti (anche se sappiamo che i miglioramenti e gli adattamenti fisici avvengono proprio durante la fase di recupero, ma non divaghiamo). In caso di seduta rigenerante spesso è consigliabile svolgere un'attività alternativa come ciclismo o bici, soprattutto dopo una gara o se si ha qualche dolore di troppo.
Come svolgere le sedute lente in salita o collinari? Semplice, andando piano. Su salita continua non è facile mantenere la frequenza cardiaca bassa o il respiro non affannoso se si corre, naturalmente a seconda della pendenza e delle proprie qualità fisiche, quindi camminare può essere spesso una buona soluzione. Questo vale anche per le corse lente collinari, dove nelle pendenze più ripide non dev’essere vergogna camminare, a maggior ragione se si fanno gare lunghissime dove quasi sicuramente in tratti del genere si camminerebbe. Anzi, la camminata in salita è spesso un allenamento fondamentale e quasi sempre trascurato, ne riparlerò.
Mi è capitato di correre a 4’15”-4'20”/km ad un ritmo che per i compagni di allenamento era definito lento, mentre era in realtà prossimo o persino più veloce del loro ritmo maratona, con affanno respiratorio importante. Stessa cosa in sedute in salita: non è capitato raramente di incontrare persone tentare di correre su pendenze molto accentuate pur con enorme affanno, durante quella che secondo loro era un giro “tranquillo".
I problemi dell'andare troppo veloce nelle sedute che dovrebbero essere di “lento" sono molti, ma facilmente riassumibili in un eccessivo affaticamento che alla lunga potrà far scadere la condizione fisica e causare infortuni, o, nel migliore dei casi, non provocare quella supercompensazione che il lento dovrebbe favorire, togliendo così l'efficacia degli allenamenti più specifici.
C'è innanzitutto da specificare che esistono “lento" e “lento". Dipende da qual è l’obiettivo della seduta. Se è un lento per accumulare lavoro aerobico, allora il ritmo sarà intorno al 70-75% della propria frequenza cardiaca massima, un ritmo che permetta di parlare abbastanza facilmente, con affaticamento muscolare molto leggero, insomma, uno sforzo sostenibile (teoricamente) per diverse ore (sempre però a seconda del proprio livello atletico). L'altro tipo di “lento" invece può essere una seduta di recupero, quindi un “lento rigenerativo", con ritmi davvero blandi, dove è bene non badare alla velocità, mantenendo le pulsazioni intorno o al di sotto del 70%, con possibilità di parlare molto tranquillamente, sforzo muscolare davvero minimo, insomma, il puro jogging, una seduta più utile per recuperare gli sforzi dei giorni precedenti piuttosto che per fini puramente allenanti (anche se sappiamo che i miglioramenti e gli adattamenti fisici avvengono proprio durante la fase di recupero, ma non divaghiamo). In caso di seduta rigenerante spesso è consigliabile svolgere un'attività alternativa come ciclismo o bici, soprattutto dopo una gara o se si ha qualche dolore di troppo.
Come svolgere le sedute lente in salita o collinari? Semplice, andando piano. Su salita continua non è facile mantenere la frequenza cardiaca bassa o il respiro non affannoso se si corre, naturalmente a seconda della pendenza e delle proprie qualità fisiche, quindi camminare può essere spesso una buona soluzione. Questo vale anche per le corse lente collinari, dove nelle pendenze più ripide non dev’essere vergogna camminare, a maggior ragione se si fanno gare lunghissime dove quasi sicuramente in tratti del genere si camminerebbe. Anzi, la camminata in salita è spesso un allenamento fondamentale e quasi sempre trascurato, ne riparlerò.
Mi è capitato di correre a 4’15”-4'20”/km ad un ritmo che per i compagni di allenamento era definito lento, mentre era in realtà prossimo o persino più veloce del loro ritmo maratona, con affanno respiratorio importante. Stessa cosa in sedute in salita: non è capitato raramente di incontrare persone tentare di correre su pendenze molto accentuate pur con enorme affanno, durante quella che secondo loro era un giro “tranquillo".
I problemi dell'andare troppo veloce nelle sedute che dovrebbero essere di “lento" sono molti, ma facilmente riassumibili in un eccessivo affaticamento che alla lunga potrà far scadere la condizione fisica e causare infortuni, o, nel migliore dei casi, non provocare quella supercompensazione che il lento dovrebbe favorire, togliendo così l'efficacia degli allenamenti più specifici.
Capita però anche di andare troppo lenti. Era il mio esempio. Avendo giocato a calcio per anni, la corsa lenta era per me di difficile esecuzione. Se avete presente immagini in cui calciatori corrono lentamente, è un semplice trotterellare, più o meno quello che facevo anch'io. Mi ci è voluto del tempo per trovare i ritmi adeguati. Rimango però ancora dell'idea che almeno nei primissimi minuti è bene partire piano. In fondo è quello che fanno anche i kenyani.
sabato 27 aprile 2019
Mathieu Van der Poel: talento, polivalenza, mentalità
Gli appassionati di ciclismo avranno ammirato come me il numero incredibile fatto da Mathieu Van der Poel la domenica di Pasqua all'Amstel Gold Race, classica olandese tra le più prestigiose del mondo dei pedali. Dopo aver attaccato ad oltre 40 km dall'arrivo in un punto strategicamente sbagliato, il 24enne olandese è stato ripreso dal gruppo senza essere in grado poi di rispondere agli attacchi di Alaphilippe e Fulsang, e nemmeno degli immediati inseguitori dei due fuggitivi. Quando la gara sembrava ormai destinata a risolversi in una volata tra il francese e il danese, il gruppo (o meglio, quello che me rimaneva) si è rifatto sotto, soprattutto grazie alla spinta di Van der Poel nell'ultima salitella a pochi km dall'arrivo e nel seguente tratto in falsopiano. Dopo aver respirato per poche centinaia di metri, il campione olandese (per inciso: contemporaneamente campione nazionale olandese di ciclocross, mountain bike e strada, caso credo unico in una nazione dalla forte tradizione ciclistica) si è rimesso in testa trascinando con sé gli inseguitori, per poi lanciare una volata lunghissima a oltre 300 metri dall'arrivo, raggiungendo e superando Alaphilippe, Fulsang e Kwiatkowski (che nel frattempo si era aggiunto ai due battistrada, i quali avevano rallentato troppo nel finale) e andando a vincere per la sua stessa incredulità.
Fin qua, tutto ok, si potrebbe pensare. Un bel numero di un giovane ciclista promettente che nelle ultime settimane si era dimostrato sempre più forte e pronto a cogliere una vittoria importante, soprattutto dopo il Giro delle Fiandre (chiuso in 4° posizione dopo una caduta e un inseguimento da applausi) e il successo alla Freccia del Brabante dopo un attacco da lontano e una volata in un gruppo ristretto con lo stesso Alaphilippe. Anche se in effetti qualcosa di particolare dovrebbe essere saltato all’occhio, ovvero il fatto che Van der Poel sia campione nazionale in tre specialità diverse, evento davvero incredibile se pensiamo alla specializzazione sempre più esasperata nello sport professionistico, figuriamoci poi nel ciclismo. Ma non è solo campione nazionale, perché è anche Campione del Mondo in carica di ciclocross. Anzi, in inverno ha dominato praticamente tutta la stagione, con 31 vittorie su 33 gare (l'anno precedente 29 su 35). E la scorsa estate, nel pieno dell'attività fuoristrada con la mountain bike, è arrivato 2° al Campionato Europeo su strada di Glasgow dietro all'azzurro Matteo Trentin. In quella settimana aveva anche partecipato al Campionato Europeo di mountain bike, senza però trovare una giornata felice (e per fortuna, si potrebbe dire, dimostrando di essere umano). Nel ciclocross vanta un altro campionato del mondo assoluto (nel 2015, a 20 anni, seguito da un 5° posto e due 2° dietro l'eterno rivale, il belga Wout Van Aert, altro ottimi ciclista polivalente, con il quale sta dando vita ad una rivalità che ha ridato seguito internazionale al mondo del ciclocross) e innumerevoli vittorie in Coppa del Mondo e Superprestige. È stato anche campione del mondo juniores su strada a Firenze nel 2013. E nella mountain bike, dopo essersi affacciato con qualche gara nel 2017, lo scorso anno ha partecipato ai Mondiali (3° posto) e Coppa del Mondo, piazzandosi alla fine al 2° posto e dando spesso del filo da torcere a Nino Schurter, autentico dominatore dell’ultimo decennio nella specialità. Insomma, praticamente da 2 anni Mathieu Van der Poel è protagonista di una lunghissima e infinita attività, con brevissime pause di poche settimane tra una disciplina e l'altra, passando velocemente e agevolmente da una bicicletta all'altra.
Non è difficile capire anche per un profano quanto sia diverso il tipo di sforzo fisico a seconda della specialità. Nel ciclocross le gare sono di un'ora circa, con una potenza media paragonabile quasi a quella di una cronometro, ma frutto di continui picchi dovuti dagli sprint e dalle ripartenze nelle tortuosità dei percorsi, spesso con la necessità di correre con bici in spalla o in spinta. Nella mountain bike lo sforzo può sembrare simile, dato che le gare durano circa un'ora e mezza (ma in Coppa del Mondo è presente anche al formula sprint, della durata di 15’-20' circa, dove Van der Poel ha vinto 3 volte lo scorso anno), però con picchi di sforzo più prolungati a causa di ripide salite solitamente più lunghe che nel ciclocross, senza parlare della differenza del mezzo motorio e della tecnica. Ci sono stati casi di atleti capaci in entrambe le discipline, ma raramente con gli stessi risultati di Van der Poel. E se parliamo dello sforzo nel ciclismo su strada, bè, è evidente che si tratti di qualcosa di nettamente diverso. Ok, ci sono sempre degli alti picchi di potenza, ma è essenziale avere doti di endurance. Non sono molti i ciclocrossisti di alto livello che sono riusciti a ritagliarsi dei buoni spazi nel ciclismo su strada. Il più delle volte hanno dovuto abbandonare il fango e i campi per poter proseguire l'attività su asfalto: pensiamo ad esempio Lars Boom o Zdenek Stybar. Ciò non significa che chi fa ciclocross sia più “scarso" degli stradisti. Claudio Chiappucci partecipava a non poche gare di ciclocross, ma nei circuiti veniva facilmente doppiato dai migliori. Anche Matteo Trentin ha partecipato a gare su sterrato, dati i suoi trascorsi giovanili con le ruote da cross, ma senza riuscire a competere coi migliori ciclocrossisti.
Insomma, arriviamo al dunque. Van der Poel è un fenomeno. Ok, su questo non ci piove. È nipote e figlio d'arte (Poulidur è suo nonno, Adri Van der Poel suo padre, ormai lo sanno anche i muri). Quello che fa lo compie grazie a doti fisiche straordinarie. Qualcuno già specula sulle sue qualità sparando alto, fino al Tour de France. Attenzione, pur non trovando nemmeno io impossibile a questo punto un suo potenziale risultato alla Grand Boucle nel futuro, si parla di fantaciclismo, qualcosa di davvero estremo e terribilmente complicato, forse impossibile, e che dovrebbe lui per primo avere bene in testa, cosa che da quanto si è percepito non è nei suoi programmi. Ecco, ma finalmente arrivo a parlare di quello di cui volevo parlare. La cosa che davvero lo rende così speciale credo sia la testa. Ma non parlo di capacità di soffrire, di impegno, di carattere, di grinta, di resistenza, di motivazione, insomma, quelle cose lì, quelle classiche, ma parlo di mindset, ovvero – a grandi linee - la capacità di modulare la propria testa a seconda dell'attività e dell'obiettivo. In uno sport esasperato come il ciclismo gli specialisti di un terreno o di una particolare gara il più delle volte si precludono a priori il tentativo di provare altro. Certo, spesso a volte anche a causa di sponsor o programmazione o altro, e questo è un altro discorso che riprendo dopo. E quanto può insegnare quello che sta facendo il giovane olandese!! E quanto può anche aprire la mente di team manager e allenatori! La corsa, la corsa! Da anni seguo con passione la stagione di ciclocross, ci sono gare dove i tratti di corsa hanno un’importanza essenziale, ma quante volte ho letto e sentito che la corsa “inquina" le qualità muscolari dei ciclisti, a causa della contrazione eccentrica. (Piccola parentesi: quanto pagherei per vedere un ciclocrossista di buon livello cimentarsi durante la stagione estiva ai Vertical, e vedere quanto eventualmente potrebbe guadagnare in una disciplina e nelll'altra!). Ricordo anni fa di aver letto di alcuni studi del grande Aldo Sassi (ex direttore del Centro Mapei) che mostravano dei miglioramenti nel gesto tecnico della pedalata dopo allenamenti specifici di contrazione eccentrica, mentre nella pedalata la contrazione è puramente concentrica (un'altra volta magari spiegherò la differenza, qua mi sto già dilungando troppo). Qualcuno li ha ritirati fuori? Qualcuno li utilizza? Magari sì, magari no, non so. Ma sarei molto curioso di sapere se qualche allenatore lo propone…
Chissà cosa accadrà. Se Van der Poel prima o poi abbandonerà totalmente il fuoristrada per darsi alla strada, come ha fatto ad esempio anche Peter Sagan (ma ricordate lo slovacco nel 2016?, quando dopo aver preparato le Olimpiadi di Rio nella mountain bike – andate poi male a seguito di problemi meccanici – andò a vincere il suo 2° titolo mondiale?) o se proseguirà alternando le attività, cosa che sinceramente mi auguro. Per farlo pare stia rifiutando contratti importanti che probabilmente lo costringerebbero ad abbandonare ciclocross e mountain bike, come accaduto a praticamente tutti quelli che lo hanno preceduto. Ormai da tempo assistiamo ai britannici che dalla pista si danno con successo ai grandi giri, a ex biker protagonisti in montagna, grazie a qualità fisiche acquisite e poi “trasformate" sull'asfalto, ma nessuno è riuscito a fare “di tutto un po'". A causa degli sponsor, dei team manager, dei preparatori atletici, oppure, perché no, per colpe proprie, per la paura di uscire dalla propria comfort zone, dalla difficoltà di avere uno sviluppato mindsetting, o dalla troppa importanza che si dà a chi dice di "non farlo”.
Un discorso che potrebbe benissimo venire buono anche nel trail running, tra Corsa in Montagna, Skyrace, Ultratrail, Ultramaratona su Strada, dove è difficile trovare atleti polivalenti, soprattutto in Italia.
Fin qua, tutto ok, si potrebbe pensare. Un bel numero di un giovane ciclista promettente che nelle ultime settimane si era dimostrato sempre più forte e pronto a cogliere una vittoria importante, soprattutto dopo il Giro delle Fiandre (chiuso in 4° posizione dopo una caduta e un inseguimento da applausi) e il successo alla Freccia del Brabante dopo un attacco da lontano e una volata in un gruppo ristretto con lo stesso Alaphilippe. Anche se in effetti qualcosa di particolare dovrebbe essere saltato all’occhio, ovvero il fatto che Van der Poel sia campione nazionale in tre specialità diverse, evento davvero incredibile se pensiamo alla specializzazione sempre più esasperata nello sport professionistico, figuriamoci poi nel ciclismo. Ma non è solo campione nazionale, perché è anche Campione del Mondo in carica di ciclocross. Anzi, in inverno ha dominato praticamente tutta la stagione, con 31 vittorie su 33 gare (l'anno precedente 29 su 35). E la scorsa estate, nel pieno dell'attività fuoristrada con la mountain bike, è arrivato 2° al Campionato Europeo su strada di Glasgow dietro all'azzurro Matteo Trentin. In quella settimana aveva anche partecipato al Campionato Europeo di mountain bike, senza però trovare una giornata felice (e per fortuna, si potrebbe dire, dimostrando di essere umano). Nel ciclocross vanta un altro campionato del mondo assoluto (nel 2015, a 20 anni, seguito da un 5° posto e due 2° dietro l'eterno rivale, il belga Wout Van Aert, altro ottimi ciclista polivalente, con il quale sta dando vita ad una rivalità che ha ridato seguito internazionale al mondo del ciclocross) e innumerevoli vittorie in Coppa del Mondo e Superprestige. È stato anche campione del mondo juniores su strada a Firenze nel 2013. E nella mountain bike, dopo essersi affacciato con qualche gara nel 2017, lo scorso anno ha partecipato ai Mondiali (3° posto) e Coppa del Mondo, piazzandosi alla fine al 2° posto e dando spesso del filo da torcere a Nino Schurter, autentico dominatore dell’ultimo decennio nella specialità. Insomma, praticamente da 2 anni Mathieu Van der Poel è protagonista di una lunghissima e infinita attività, con brevissime pause di poche settimane tra una disciplina e l'altra, passando velocemente e agevolmente da una bicicletta all'altra.
Non è difficile capire anche per un profano quanto sia diverso il tipo di sforzo fisico a seconda della specialità. Nel ciclocross le gare sono di un'ora circa, con una potenza media paragonabile quasi a quella di una cronometro, ma frutto di continui picchi dovuti dagli sprint e dalle ripartenze nelle tortuosità dei percorsi, spesso con la necessità di correre con bici in spalla o in spinta. Nella mountain bike lo sforzo può sembrare simile, dato che le gare durano circa un'ora e mezza (ma in Coppa del Mondo è presente anche al formula sprint, della durata di 15’-20' circa, dove Van der Poel ha vinto 3 volte lo scorso anno), però con picchi di sforzo più prolungati a causa di ripide salite solitamente più lunghe che nel ciclocross, senza parlare della differenza del mezzo motorio e della tecnica. Ci sono stati casi di atleti capaci in entrambe le discipline, ma raramente con gli stessi risultati di Van der Poel. E se parliamo dello sforzo nel ciclismo su strada, bè, è evidente che si tratti di qualcosa di nettamente diverso. Ok, ci sono sempre degli alti picchi di potenza, ma è essenziale avere doti di endurance. Non sono molti i ciclocrossisti di alto livello che sono riusciti a ritagliarsi dei buoni spazi nel ciclismo su strada. Il più delle volte hanno dovuto abbandonare il fango e i campi per poter proseguire l'attività su asfalto: pensiamo ad esempio Lars Boom o Zdenek Stybar. Ciò non significa che chi fa ciclocross sia più “scarso" degli stradisti. Claudio Chiappucci partecipava a non poche gare di ciclocross, ma nei circuiti veniva facilmente doppiato dai migliori. Anche Matteo Trentin ha partecipato a gare su sterrato, dati i suoi trascorsi giovanili con le ruote da cross, ma senza riuscire a competere coi migliori ciclocrossisti.
Insomma, arriviamo al dunque. Van der Poel è un fenomeno. Ok, su questo non ci piove. È nipote e figlio d'arte (Poulidur è suo nonno, Adri Van der Poel suo padre, ormai lo sanno anche i muri). Quello che fa lo compie grazie a doti fisiche straordinarie. Qualcuno già specula sulle sue qualità sparando alto, fino al Tour de France. Attenzione, pur non trovando nemmeno io impossibile a questo punto un suo potenziale risultato alla Grand Boucle nel futuro, si parla di fantaciclismo, qualcosa di davvero estremo e terribilmente complicato, forse impossibile, e che dovrebbe lui per primo avere bene in testa, cosa che da quanto si è percepito non è nei suoi programmi. Ecco, ma finalmente arrivo a parlare di quello di cui volevo parlare. La cosa che davvero lo rende così speciale credo sia la testa. Ma non parlo di capacità di soffrire, di impegno, di carattere, di grinta, di resistenza, di motivazione, insomma, quelle cose lì, quelle classiche, ma parlo di mindset, ovvero – a grandi linee - la capacità di modulare la propria testa a seconda dell'attività e dell'obiettivo. In uno sport esasperato come il ciclismo gli specialisti di un terreno o di una particolare gara il più delle volte si precludono a priori il tentativo di provare altro. Certo, spesso a volte anche a causa di sponsor o programmazione o altro, e questo è un altro discorso che riprendo dopo. E quanto può insegnare quello che sta facendo il giovane olandese!! E quanto può anche aprire la mente di team manager e allenatori! La corsa, la corsa! Da anni seguo con passione la stagione di ciclocross, ci sono gare dove i tratti di corsa hanno un’importanza essenziale, ma quante volte ho letto e sentito che la corsa “inquina" le qualità muscolari dei ciclisti, a causa della contrazione eccentrica. (Piccola parentesi: quanto pagherei per vedere un ciclocrossista di buon livello cimentarsi durante la stagione estiva ai Vertical, e vedere quanto eventualmente potrebbe guadagnare in una disciplina e nelll'altra!). Ricordo anni fa di aver letto di alcuni studi del grande Aldo Sassi (ex direttore del Centro Mapei) che mostravano dei miglioramenti nel gesto tecnico della pedalata dopo allenamenti specifici di contrazione eccentrica, mentre nella pedalata la contrazione è puramente concentrica (un'altra volta magari spiegherò la differenza, qua mi sto già dilungando troppo). Qualcuno li ha ritirati fuori? Qualcuno li utilizza? Magari sì, magari no, non so. Ma sarei molto curioso di sapere se qualche allenatore lo propone…
Chissà cosa accadrà. Se Van der Poel prima o poi abbandonerà totalmente il fuoristrada per darsi alla strada, come ha fatto ad esempio anche Peter Sagan (ma ricordate lo slovacco nel 2016?, quando dopo aver preparato le Olimpiadi di Rio nella mountain bike – andate poi male a seguito di problemi meccanici – andò a vincere il suo 2° titolo mondiale?) o se proseguirà alternando le attività, cosa che sinceramente mi auguro. Per farlo pare stia rifiutando contratti importanti che probabilmente lo costringerebbero ad abbandonare ciclocross e mountain bike, come accaduto a praticamente tutti quelli che lo hanno preceduto. Ormai da tempo assistiamo ai britannici che dalla pista si danno con successo ai grandi giri, a ex biker protagonisti in montagna, grazie a qualità fisiche acquisite e poi “trasformate" sull'asfalto, ma nessuno è riuscito a fare “di tutto un po'". A causa degli sponsor, dei team manager, dei preparatori atletici, oppure, perché no, per colpe proprie, per la paura di uscire dalla propria comfort zone, dalla difficoltà di avere uno sviluppato mindsetting, o dalla troppa importanza che si dà a chi dice di "non farlo”.
Un discorso che potrebbe benissimo venire buono anche nel trail running, tra Corsa in Montagna, Skyrace, Ultratrail, Ultramaratona su Strada, dove è difficile trovare atleti polivalenti, soprattutto in Italia.
venerdì 19 aprile 2019
Quanto dislivello a settimana?
Quanto dislivello fai a settimana? È un'altra delle domande più classiche che mi vengono poste. In questo caso di solito sono un po' più preciso, anche se tutto dipende sempre dal periodo dell'anno e dalla gara che devo preparare. Una semplice regola che avevo e che ho ancora è quella di (in prossimità della gara) avvicinarmi al dislivello del percorso che mi aspetta nell'arco di una settimana. Ad esempio, prima di un UTMB o di una Diagonale de Fous ho sempre cercato di fare 2 o 3 settimane con circa 10mila metri di dislivello, con un terzo o al massimo metà di essi fatti in bicicletta per non sovraccaricare le articolazioni, accumulando però un lavoro muscolare e di endurance utile ai fini della prestazione. Ovviamente non partendo da zero, ma arrivandoci gradualmente, attraverso mesi e mesi di dislivelli che fluttuano generalmente tra i 3000 e i 6000 metri. Oppure, ad esempio, quando ho preparato la Transgrancanaria o la TDS rimanevo sui 7000 metri, per la LUT tra i 5000 e i 6000. A inizio anno, con le prime gare intorno ai 2000 o 3000 metri di dislivello totale, arrivo in poco tempo ad accumulare quella distanza verticale settimanale.
Nel tempo ho scoperto e capito l'importanza di mantenere comunque della buona qualità anche in pianura, visto che alla base del trail rimane sempre la corsa, i ritmi sono sempre più alti e non è più sufficiente essere dei trattori che spingono in salita e rimangono impiantati sul corribile. È fondamentale il lavoro di qualità in pianura anche per incrementare o mantenere le capacità cardiovascolari.
Ma questa è la mia esperienza, non è detto che funzioni per tutti. Molti specialisti del vertical (quindi gare per la maggior parte dei casi poco sopra la mezzora di durata) fanno 10mila metri a settimana per buona parte dell'anno, grazie anche alla facilità e la velocità con cui salgono, oltre che per le possibilità di tempo e percorsi. E qua torniamo al solito discorso, le possibilità e le qualità individuali. Con lavoro e famiglia, poco tempo, salite lontane, appare ovvio non riuscire ad accumulare tutti quei metri. Allora può diventare importante cercare come obiettivo quello di raggiungere circa metà del dislivello dell'ultratrail che si sta preparando. Anche questa può essere impresa non facile, motivo per cui diventa essenziale inserire lavori di forza supplementari, in palestra o a corpo libero. È necessario però non fossilizzarsi su un'unica strada, specialmente se l'obiettivo è una gara molto corribile, dove è essenziale saper correre per lungo tempo sul piano, e non solo salire e scendere.
Se accumulare dislivello è veramente difficile per motivi logistici, meglio non perdere tempo nel tentativo estremo di raggiungere quei metri “necessari", ma concentrarsi anche sullo sviluppo di altre qualità che potranno essere utili e verranno ugualmente in soccorso nella realizzazione del proprio obiettivo finale.
Nel tempo ho scoperto e capito l'importanza di mantenere comunque della buona qualità anche in pianura, visto che alla base del trail rimane sempre la corsa, i ritmi sono sempre più alti e non è più sufficiente essere dei trattori che spingono in salita e rimangono impiantati sul corribile. È fondamentale il lavoro di qualità in pianura anche per incrementare o mantenere le capacità cardiovascolari.
Ma questa è la mia esperienza, non è detto che funzioni per tutti. Molti specialisti del vertical (quindi gare per la maggior parte dei casi poco sopra la mezzora di durata) fanno 10mila metri a settimana per buona parte dell'anno, grazie anche alla facilità e la velocità con cui salgono, oltre che per le possibilità di tempo e percorsi. E qua torniamo al solito discorso, le possibilità e le qualità individuali. Con lavoro e famiglia, poco tempo, salite lontane, appare ovvio non riuscire ad accumulare tutti quei metri. Allora può diventare importante cercare come obiettivo quello di raggiungere circa metà del dislivello dell'ultratrail che si sta preparando. Anche questa può essere impresa non facile, motivo per cui diventa essenziale inserire lavori di forza supplementari, in palestra o a corpo libero. È necessario però non fossilizzarsi su un'unica strada, specialmente se l'obiettivo è una gara molto corribile, dove è essenziale saper correre per lungo tempo sul piano, e non solo salire e scendere.
Se accumulare dislivello è veramente difficile per motivi logistici, meglio non perdere tempo nel tentativo estremo di raggiungere quei metri “necessari", ma concentrarsi anche sullo sviluppo di altre qualità che potranno essere utili e verranno ugualmente in soccorso nella realizzazione del proprio obiettivo finale.
mercoledì 17 aprile 2019
Quanti km a settimana?
Quanti km fai in una settimana? È una delle domande più classiche che mi vengono fatte. La risposta tipica è: “di preciso non lo so". Davvero, non conto i km. Il trail non è la corsa su strada, i km contano in modo relativo. C'è da considerare il dislivello, la tecnicità del percorso gara che si sta preparando, quanto e quale cross training si sta effettuando, sia come carico che come recupero. Non è raro sentire che “per preparare bene una maratona bisogna fare almeno 150 km a settimana”: certo, se si ha un certo motore e si ha tempo per allenarsi e recuperare. 100 km in una settimana non danno gli stessi effetti sulle persone, tutto dipende sempre dalla propria storia, le proprie qualità, la capacità di recupero, eccetera eccetera (sono sempre le solite cose, dai).
Sembrerebbe scontato pensare che di conseguenza per preparare un ultratrail di 80 o 100 km bisogna farne 150, 180 o 200 di km. Qualche profano pensa che io corra 50 km al giorno. Ma il discorso cade sempre lì, bisogna avere il tempo e ‘bisogna avere il fisico’, detto volgarmente. Io stesso le rare volte in cui ho provato a preparare gare su strada o tendenzialmente pianeggianti, raramente sono riuscito ad andare oltre i 130 km. In quei casi l'infortunio era dietro l'angolo, e spesso è purtroppo arrivato. Ho fatto alcune delle mie migliori gare ultra senza aver superato per mesi i 70-80 km a settimana (anche se con un po' di dislivello, 2000 o 4000 metri circa, che possono corrispondere a livello di sforzo fisico a circa 20 o 40 km).
Prima dell'UTMB quanti km ho fatto? Non lo so, non lo so proprio. Non molti, nell'ultimo mese forse a fatica 100 a settimana per una quindicina di giorni. L’importante era fare per almeno una decina di giorni una media di 30/35 ore a settimana, 10/12 mila metri di dislivello (compresa la bici, poco meno della metà). Tutto questo giusto per pochi giorni in un anno, mentre i più forti al mondo lo fanno per mesi. Avevo però sì fatto un buon periodo, diciamo tra gennaio e aprile, con forse il mio maggior periodo in assoluto di buoni chilometri senza alcun problema. Perché in ogni caso, per fare davvero bene degli ultratrail i km nelle gambe bisogna comunque averli.
In conclusione, non è importante quanti km fare, ma come farli, e sulla base di tutta la propria storia atletica, delle proprie capacità e delle proprie necessità, come impostare la stagione, quando e dove (e come) inserire sedute di qualità, quanto fare lunghi i “lunghi", se e come inserire sedute di forza e/o potenziamento, se e come fare cross training, e più di ogni altra cosa, avere la miglior percezione possibile di come si sta lungo i diversi cicli di allenamento.
Sembrerebbe scontato pensare che di conseguenza per preparare un ultratrail di 80 o 100 km bisogna farne 150, 180 o 200 di km. Qualche profano pensa che io corra 50 km al giorno. Ma il discorso cade sempre lì, bisogna avere il tempo e ‘bisogna avere il fisico’, detto volgarmente. Io stesso le rare volte in cui ho provato a preparare gare su strada o tendenzialmente pianeggianti, raramente sono riuscito ad andare oltre i 130 km. In quei casi l'infortunio era dietro l'angolo, e spesso è purtroppo arrivato. Ho fatto alcune delle mie migliori gare ultra senza aver superato per mesi i 70-80 km a settimana (anche se con un po' di dislivello, 2000 o 4000 metri circa, che possono corrispondere a livello di sforzo fisico a circa 20 o 40 km).
Prima dell'UTMB quanti km ho fatto? Non lo so, non lo so proprio. Non molti, nell'ultimo mese forse a fatica 100 a settimana per una quindicina di giorni. L’importante era fare per almeno una decina di giorni una media di 30/35 ore a settimana, 10/12 mila metri di dislivello (compresa la bici, poco meno della metà). Tutto questo giusto per pochi giorni in un anno, mentre i più forti al mondo lo fanno per mesi. Avevo però sì fatto un buon periodo, diciamo tra gennaio e aprile, con forse il mio maggior periodo in assoluto di buoni chilometri senza alcun problema. Perché in ogni caso, per fare davvero bene degli ultratrail i km nelle gambe bisogna comunque averli.
In conclusione, non è importante quanti km fare, ma come farli, e sulla base di tutta la propria storia atletica, delle proprie capacità e delle proprie necessità, come impostare la stagione, quando e dove (e come) inserire sedute di qualità, quanto fare lunghi i “lunghi", se e come inserire sedute di forza e/o potenziamento, se e come fare cross training, e più di ogni altra cosa, avere la miglior percezione possibile di come si sta lungo i diversi cicli di allenamento.
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